Un luglio 2015 contrastante dal punto di vista dei dati economici. Secondo l’Istat l’indice di fiducia dei consumatori scende dal 109,3 di giugno al 106,5 di luglio. Migliora il clima delle imprese dei servizi di mercato (da 109,2 a 110) e delle imprese del commercio al dettaglio (da 105,9 a 106,5), mentre peggiora quello del settore manifatturiero (da 103,9 a 103,3) e delle costruzioni (da 119,7 a 117,6). Il Fondo monetario internazionale nel frattempo ha reso noto che “senza una significativa accelerazione della crescita, ci vorranno dieci anni alla Spagna e quasi 20 anni a Portogallo e Italia per ridurre il tasso di disoccupazione ai livelli pre-crisi”. Ne abbiamo parlato con Guido Gentili, editorialista ed ex direttore de Il Sole-24 Ore.



Che cosa può avere interrotto la tendenza positiva nella fiducia di imprese e consumatori?

Da tempo parliamo di una ripresa fragile, dietro a cui non c’è solo un’indicazione quantitativa di aumento del reddito nazionale dello 0,6-0,8%, ma anche questo “stop and go” sulla fiducia di famiglie e imprese. Non c’è ancora una percezione radicata di una fiducia in recupero, ma siamo in una fase in cui va e viene. Nella percezione di famiglie e imprese non mi meraviglia che poi ci siano questi salti, per cui in un momento sembra di essere fuori dal tunnel, mentre in un altro le prospettive sono meno rosee di quanto si prevedeva.



Per il Fmi ci vorranno 20 anni per tornare ai livelli di occupazione pre-crisi. A che cosa sono servite allora le riforme del governo?

Una previsione di qui a 20 anni, soprattutto di questi tempi, mi sembra veramente futuribile. Nessuno, compreso il Fmi, sa dove saremo tra due decenni. La profondità della crisi che ha investito l’Italia è nota: abbiamo perso un quarto della nostra produzione industriale. Tornare ai livelli pre-crisi comunque è un’ipotesi che richiede anni. In termini di occupazione gli sconvolgimenti sono profondi, non soltanto per la gravità della recessione, ma anche per i cambiamenti strutturali nel mercato del lavoro mondiale. Quindi sarà un percorso lungo.



Basta il Jobs Act per rilanciare l’occupazione?

Non dobbiamo cadere nell’errore di pensare di avere adottato i provvedimenti in grado di risolvere il problema e di far sì che la crisi sia già alle spalle. Nella realtà non è così. La ripresa non è così consolidata da consentirci di dire che abbiamo risolto tutti i problemi, per di più in un periodo in cui l’economia è trainata da fattori esterni favorevoli. A prescindere dal fatto che a fine 2015 il Pil sarà cresciuto dello 0,6 o dello 0,8%, una crescita decente ha un tasso superiore all’1%. Ci sono previsioni migliori per il 2016, ma il cammino è ancora lungo.

Che cosa può fare realmente il governo per rilanciare la crescita?

Il governo deve in primo luogo attuare la spending review, cosa che peraltro avrebbe dovuto fare già da tempo. Il dossier ora è stato affidato a Gutgeld e Perotti, due tecnici di indubbio valore. Sarà però Renzi a dover decidere. Dobbiamo trovare 10 miliardi di euro per disinnescare la clausola di salvaguardia per il solo 2016.

 

Come valuta il piano di taglio delle tasse?

Una riduzione delle tasse da 40 miliardi è una promessa giusta ma molto impegnativa. Richiederà una verifica spietata dal lato delle coperture. Bisogna insistere molto sul terreno della riforma fiscale, abbassando in particolare le tasse che gravano sul lavoro perché sono quelle che fanno la differenza.

 

Di quali altre riforme c’è più bisogno?

Il governo deve insistere sulla strada del cambiamento. Personalmente non condivido la tesi di quanti affermano che le riforme di Senato e Titolo V della Costituzione non sono un’emergenza, e che i veri problemi sono quelli dell’economia. Il Paese ha bisogno un po’ di tutto, compresa una riforma dell’assetto istituzionale e quella della Rai. Documentare dati alla mano che le riforme vanno avanti è un fattore positivo, tenendo però conto anche dei dati sulla crescita.

 

(Pietro Vernizzi)