Le recenti sentenze della Corte di Cassazione hanno riportato alla ribalta il tema dell’Ici – ora Imu – per le scuole paritarie. Leggendo le sentenze, e riportando così alla memoria il dibattito di questi anni, ritorna a essere evidente che il vero tema, dirimente nella questione Imu ma non solo, è la definizione di quando un ente possa essere – o meno – considerato non commerciale.



È utile sottolineare che la definizione della commercialità non riguarda affatto i soli enti ecclesiastici, né il solo mondo della scuola paritaria, ma tutto il mondo del non profit. Anche in occasione dell’iter della riforma del Terzo settore è più che mai importante arrivare a una definizione del soggetto ente non commerciale e della conseguente tassazione delle attività che tenga conto dell’evoluzione che ha interessato gli enti e dell’impostazione che in Europa sta prendendo piede. Da sempre si tratta di una definizione complessa, che si è prestata a tante e diverse interpretazioni sia dell’Agenzia delle Entrate, sia della Corte di Cassazione. 



Semplificando assai, per la legislazione tributaria italiana sono enti non commerciali quelli “che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale“. Con l’espressione attività commerciale si intende fare riferimento all’attività che determina reddito di impresa, e tra i redditi di impresa sono compresi “i redditi derivanti dall’esercizio di attività organizzate in forma di impresa dirette alla prestazione di servizi“.

Il dibattito, dunque, riguarda l’accezione di “attività organizzate in forma di impresa“. Tale definizione, infatti, non tiene conto delle finalità di interesse generale che gli enti perseguono, finendo per equiparare, dal punto di vista della tassazione, enti che perseguono finalità di interesse generale in modo non lucrativo a società commerciali che operano in un mercato concorrenziale e possono distribuire gli utili. In questi anni ci si è però resi conto dell’importanza delle finalità non lucrative e della peculiarità di molti settori di attività, che per loro natura o per i soggetti a cui si rivolgono devono essere considerati di utilità sociale.



Sono pertanto nati regimi tributari “speciali” – primo fra tutti quello delle Onlus – che godono di importanti agevolazioni, sia dal punto di vista della decommercializzazione di attività che avrebbero, invece, natura commerciale, sia dal punto di vista della possibilità – per chi effettua donazioni a tali enti – di detrarle dalle proprie imposte o dedurle dal proprio reddito. Pertanto, esiste già in Italia una deroga importante a una tassazione indiscriminata dell’attività di prestazione di servizi dietro corrispettivi, costituita appunto dalla disciplina delle Onlus – oltre che, per attività decisamente più marginali, anche per le organizzazioni di volontariato.

Altre grande deroga riguarda il mondo associativo che, a fronte di statuti e organizzazione effettivamente democratici, vede la decommercializzazione delle prestazioni di servizi effettuate nei confronti dei soci dietro corrispettivo.

Il dibattito intorno al tema Ici-Imu ha poi acceso i riflettori su un protagonista che era stato un po’ ignorato: l’Europa. Per la legislazione europea, la possibilità di concedere agevolazioni fiscali agli enti non profit è subordinata ad uno dei principi cardine, la libera concorrenza. In proposito è impossibile non citare l’articolo 87 del Trattato, che esordisce così: “Salvo deroghe contemplate dal presente trattato, sono incompatibili con il mercato comune, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza“.

Questi elementi distorsivi della concorrenza sono considerati aiuti di Stato e, sebbene non siano definiti dal Trattato, vantano giurisprudenza consolidata: è aiuto di Stato la sovvenzione statale che crea distorsioni alla concorrenza perché favorisce alcuni operatori al posto di altri. In questo senso può essere aiuto di Stato anche l’agevolazione fiscale. 

Secondo costante giurisprudenza europea, nell’ambito del diritto della concorrenza, il concetto di “impresa” comprende qualsiasi ente che eserciti attività economica, a prescindere dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento. In proposito, un certo clamore era stato destato dalla Sentenza della Corte 10 Gennaio 2006 nel procedimento C-222/04, che riguardava le fondazioni bancarie.

In questa sentenza veniva affermato che la nozione di impresa è esclusa quando l’attività svolta “ha natura esclusivamente sociale e non è svolta su un mercato in concorrenza“. Quando, invece, l’ente agisce direttamente e “può offrire servizi e beni sul mercato in concorrenza con altri operatori” […] deve essere considerato come un’impresa, “in quanto svolge un’attività economica, nonostante il fatto che l’offerta di beni o servizi sia fatta senza scopo di lucro, poiché tale offerta si pone in concorrenza con quella di operatori che invece tale scopo perseguono“.

A parte l’ovvia osservazione che molti servizi prestati da enti non profit non sono prestati in un mercato concorrenziale, da questo breve e assolutamente incompleto excursus si può facilmente comprendere che c’è un problema e che va affrontato in modo radicale. Se, infatti, nel diritto italiano, la presenza di attività organizzata per la produzione di servizi è lo scivolo verso la qualificazione di un ente, pur non lucrativo, come commerciale e se l’Europa, dal canto suo, considera l’offerta di servizi sul mercato un elemento che porta a qualificare le agevolazioni come aiuto di Stato, è possibile agevolare il non profit?

A questa domanda non si può rispondere se non ponendone un’altra: perché il non profit va agevolato? La concessione di agevolazioni fiscali ha una sua ragione: un ente è agevolato perché le finalità perseguite sono per il bene comune; perché opera in settori di attività di pubblico interesse, pur essendo privato; se non ci fosse, dovrebbe intervenire la Pubblica amministrazione o altro organismo, perché quello che realizza è importante per la società. Può trattarsi dell’auto-organizzazione di persone che vogliono costruire luoghi di socialità (si pensi ai tanti “circoli” che animano l’Italia), o di fondazioni che, senza scopo di lucro, realizzano servizi rivolti a soggetti che attraversano momenti di vulnerabilità. Oppure di scuole paritarie.

Questi servizi talvolta sono offerti dietro corrispettivo, perché nonostante siano di interesse generale non godono di risorse pubbliche, o ne godono parzialmente. Ma i conti dello Stato in rosso non sono una buona ragione per cessare di considerarli di pubblica utilità.

La definizione di ente non commerciale non può non tenere conto di questo e appiattirsi su una definizione che, a fronte della vendita di servizi, qualifica l’ente come commerciale. C’è servizio e servizio. C’è finalità e finalità. Ma come si può fare con l’Europa?

Spesso gli aiuti vengono da dove meno ce li si aspetta e, in questo caso, arrivano dalla risposta dell’Agenzia delle Entrate all’audizione fatta alla Camera in occasione dell’esame della riforma del Terzo settore. L’Agenzia, con realismo, pone il tema di come l’Europa potrebbe guardare ad agevolazioni al Terzo settore, affermando che “l’eventuale introduzione di misure agevolative di carattere fiscale, però, va certamente contemperato con la normativa comunitaria in tema di aiuti di Stato“. 

Dopo di che inizia a ipotizzare soluzioni, osservando che “l’Unione europea ha recentemente varato un’articolata disciplina riguardante la compatibilità di quegli aiuti di Stato che si configurino specificamente come forme di compensazione degli obblighi di servizio pubblico, concessi a determinate imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale (Sieg)“.

L’agenzia delle Entrate, giustamente, introduce il tema della “grande deroga” al principio di concorrenza costituito dai Sieg, stabilita dall’articolo 106 del Trattato. Ai sensi di tale articolo, infatti, “le imprese che si occupano di servizi di interesse economico generale sono sottoposte alle regole della concorrenza nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata”. 

Certo, la disciplina dei Sieg è molto rigida, ma potrebbe comunque costituire un buon inizio per un dialogo fruttuoso con l’Europa, teso a far comprendere la grande ricchezza che il settore non profit costituisce per la nostra società. Anche per questo, l’Agenzia delle Entrate conclude affermando che “va dunque apprezzata la possibilità di ripensare l’attuale regime di tassazione del Terzo settore alla luce delle finalità solidaristiche e di utilità sociale, della non lucratività soggettiva e dell’impatto sociale […]. Resta ovviamente il problema di costruire un sistema normativo in grado di verificare le finalità solidaristiche e di utilità sociale, il divieto di ripartizione (diretta e indiretta) degli utili e di misurare l’impatto sociale“. Viene dunque prospettata una modulazione della tassazione sulla base delle finalità solidaristiche e di utilità sociale, legate alla misurazione dell’impatto sociale realizzato.

Certamente le osservazioni dell’Agenzia delle Entrate possono costituire uno spunto importante per la definizione di una disciplina dei soggetti non profit improntata sulla valorizzazione dell’utilità pubblica delle attività prestate in settori di attività considerati di interesse generale e senza scopo di lucro. Per queste ragioni, mi sembra che sia maturo il tempo per affrontare il tema, con la giusta tensione a valorizzare tutto – ma proprio tutto – quello che nel nostro Paese c’è e opera per il bene comune.