Quali che saranno i risultati definitivi del referendum in Grecia, l’Europa in generale, e l’Unione europea in particolare, escono profondamente ferite dai tentativi di terzo “salvataggio” di Atene nel giro di pochi anni. Ci vorrà tempo per rimarginarla e per avere un quadro del futuro perché nella Repubblica Ellenica, dal 1830, vige non solo la tradizione di ripudiare periodicamente il debito pubblico, ma anche quella di accuse di brogli elettorali tra le forze politiche e i candidati in lizza.



Non sappiamo se, in seguito, alle elezioni si riaprirà il tavolo negoziale e Atene otterrà, a spese dei contribuenti europei, i 50 miliardi di dollari che, secondo il Fondo monetario, sono necessari nei prossimi tre anni per rimettere in moto l’economia del Paese. Non sappiamo neanche se la Grecia otterrà il tanto ambito “taglio” del debito contratto con gli altri Stati dell’eurozona. Sappiamo ancora meno se il ceto politico e amministrativo greco vorrà, e potrà, effettuare le riforme essenziali a consolidare la finanza pubblica e, quel che più conta, ad aumentare la produttività.



Sappiamo, però, che solo raramente dopo liti simili a quella de La Guerra dei Roses è possibile progettare un luna di miele. Ci sono rare eccezioni: i due matrimoni di Elisabeth Taylor e Richard Burton e i due matrimoni tra Sally A. Shelton e Eduardo Jimenez. Si tratta, però, di eccezioni che confermano quanto sia arduo un secondo o terzo inizio.

Ciò nonostante, i leader di numerosi Stati europei sembrano implorare la Grecia di restare nell’eurozona e nell’Ue. Esiste ancora quel minimo di fiducia reciproca – come ha ricordato di recente Alberto Alesina – per tentare un nuovo fidanzamento (non credo che sia il caso di preparare i confetti per nuove nozze)? A mio avviso, non solo la Grecia è entrata nell’Ue e nell’eurozona per pura scelta politica, nonostante lo stesso Eurostat avesse consigliato di tenerla fuori dalla porta, ma non ha saputo trarre vantaggio dalla stabilità monetaria e dal ribasso dei tassi d’interesse ottenuto grazie alla partecipazione all’eurozona. Ciò rappresentava un’occasione unica per il Paese il cui tasso di cambio era passato da 37 dracme per dollaro nel 1980 a 329 nel 1999.



Non solo, ma dopo la seconda crisi finanziaria e la sostituzione di debiti con gli Stati dell’eurozona rispetto ai debiti con intermediari finanziari, gli stessi governanti greci hanno ammesso di aver taroccato pur di dare l’impressione di viaggiare verso i parametri stipulati in trattati e accordi intergovernativi da loro stessi firmati.

Dopo le elezioni dello scorso gennaio, il nuovo Governo ha tenuto un comportamento quanto meno sconcertante al tavolo delle trattative, alternando rivendicazioni del passato remoto a minacce senza presentare proposte concrete, né di consolidamento della finanza pubblica, né di misure per aumentare la produttività e diversificare la base della propria economia.

Non sono mancati errori anche dall’altra parte del tavolo. La Bce, costretta dai propri statuti e organi collegiali, è stata tardiva nel mettere in atto il Quantitative easing (e non è chiaro che fine abbiano fatto le Outright monetary transactions e un po’ precipitosa nel limitare gli aiuti eccezionali alle banche greche. Il Fondo monetario è parso ondivago. Il Presidente della Commissione europea ha fatto dichiarazioni pubbliche che entravano a gamba tesa in questioni interne della Grecia, rivolgendosi direttamente all’elettorato dell’Ellade.

Occorre, però, ricordare che mentre i leader di Francia e Italia, unitamente ad Austria e Benelux, sono parsi i più propensi a cercare un accordo con la Grecia, sono circondati, nell’Eurogruppo e nella più vasta Ue, da un coro a cappella di “bassi profondi”, il registro dei veri “duri e puri” che da tempo avrebbero chiesto al governo di Atene di lasciare tanto l’euro quanto l’Ue. Sono paesi che si considerano molto più poveri della Grecia e non capiscono perché si debba per la terza volta correre in aiuto di Atene affinché faccia le riforme che loro hanno attuato da tempo, facendo fronte a sofferenze e difficoltà sociali.

Più agguerrite sono le Repubbliche Baltiche: il primo ministro lituano ripete che i suoi concittadini hanno un’età pensionistica molto più alta (67 anni) e trattamenti molto più bassi dei greci: non comprende perché i pensionati lituani debbano sovvenzionare i greci. Sulla stessa linea, la Slovacchia e la Slovenia, mentre Malta, Cipro e Irlanda si vantano di aver rimesso in sesto i propri sistemi bancari con un’unica tornata di aiuti europei per ciascun Paese. Lo sottolinea anche la Spagna, mentre il Portogallo fa notare di essere povero tanto quanto la Grecia, ma di non avere avuto che un breve programma di supporto europeo e di essersela cavata con l’accurata gestione dei fondi strutturali. Le insidie maggiori (per Atene) vengono poi dal resto dell’Ue. Il primo ministro bulgaro Rosen Plevneliev è scatenato in discorsi pubblici. Soprattutto sta organizzando altri Stati neo-comunitari (Romania, Polonia, Ungheria) perché alla Grecia vengano dati non aiuti, ma un benservito per avere taroccato i conti.

In un’opera giovanile di Handel (Il trionfo del tempo del disinganno) un protagonista dice che un secondo matrimonio è la vittoria della speranza sull’esperienza. A leggere le cronache degli ultimi mesi, la speranza dovrebbe essere immensa. E l’esperienza dovrebbe essere dimenticata e dare luogo a una nuova ventata di fiducia. È possibile? L’Europa ha subito una profonda ferita. Per rimarginarla è necessaria un’eurozona più coesa, anche facendo qualche amputazione prima che l’infezione si diffonda sul resto del corpo.

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