Penso che nessun mio lettore sia stato colto alla sprovvista o sia rimasto particolarmente impressionato dal crollo della Borsa cinese, giù di oltre il 30% dai massimi del 12 giugno scorso, visto che sono mesi che metto in guardia dalla bolla delle equities del Dragone, mentre la stampa autorevole e specializzata glorificava il rally. Mettiamo subito le cose in prospettiva: in Cina in tre settimane è stata bruciata capitalizzazione di Borsa pari a 15 volte il Pil della Grecia. Magari cominciamo a ragionare adesso e lasciamo Atene al suo destino, visto che il default ellenico è gestibile, un tonfo cinese ci rispedirebbe dritti dritti nel 2008 e con difese minori, visto che le Banche centrali non posso mandare i tassi a -5% dopo anni di tassi a zero, né stampare in eterno.
Ancora più prospettiva, il mercato cinese crolla nonostante Banca centrale, regolatori e market-makers abbiano messo in campo quanto segue negli ultimi giorni: un taglio dei tassi, l’ampliamento del collaterale eligibile per ottenere denaro dai brokers, l’ammorbidimento delle regole sul margin-trading, l’eliminazione del bollo titoli, il divieto di vendita azionaria per i fondi pensione, la possibilità di utilizzare beni immobili come collaterale verso le società di brokerage per ottenere denaro per il margin trading, come ci mostra il primo grafico a fondo pagina.
Di più, proprio alcune aziende di brokerage giovedì scorso hanno dato vita a un fondo azionario proprio per cercare di arrestare il peggior calo del mercato a tre settimane dal 1992. Le 22 entità, guidate dalla Citic Securities, investiranno l’equivalente del 15% dei loro assets netti a bilancio alla fine di giugno o comunque non meno di 120 miliardi di yuan (oltre 19 miliardi di dollari) in totale attraverso acquisti di Etf su blue-chips e sono attive dalla seduta di lunedì. Risultati ottenuti finora? Zero.
Perché? Semplice, davvero semplice spiegare cosa sta accadendo sul mercato cinese, ce lo dice il secondo grafico: le scommesse a leva sui titoli azionari cinesi sono salite a un livello record rispetto al volume del mercato, visto che i prezzi sono crollati più velocemente di quanto i margin traders abbiano saputo e potuto chiudere le posizioni. Quindi, il mitologico effetto palla di neve che crea la valanga andando a valle. Tutti cercano la porta di uscita, ma questa diventa ogni giorno più stretta e i cali dei prezzi più repentini, quindi tocca chiudere le posizioni in qualche modo e a qualsiasi costo. Punto, tutto qui.
E cos’è successo ieri? Per il dodicesimo giorno di fila, il margin debt cinese è crollato, ma questa volta dell’8,5%, il più grosso calo intraday della storia, con lo Shanghai Composite che ha aperto le contrattazioni a -7% e le ha chiuse a -5,91%, mentre Hong Kong si sparava un sobrio -5,84%. E a rendere il mercato frenetico e la volatilità senza precedenti è il fatto che le aziende, pur di non vedere i propri titoli scaricati come se non ci fosse un domani, utilizzano strategicamente le sospensioni dalle contrattazione, di fatto impedendo le vendite agli investitori, che in Cina sono per la gran parte retail e senza esperienza di trading, visto che sono stati aperti qualcosa come 90 milioni di conti titoli individuali, più dei tesserati al Partito comunista cinese che sono poco più di 88 milioni. Solo ieri tra Shanghai e Shenzhen, le sospensioni hanno riguardato 1544 titoli, qualcosa come il 54,7% dei due mercati insieme, percentuale che significa un congelamento (lock-up) pari a un controvalore di 2,6 triliardi di dollari o il 43% del valore totale. Addirittura, come ci mostra l’ultimo grafico, l’indice CSI-300 è andato in rosso da inizio anno dopo una crescita di oltre il 150%!
E il governo cosa fa? Dopo aver iniettato liquidità senza che questa mossa servisse assolutamente a nulla tenta la carta suicida di invogliare la gente a investire in un mercato che crolla semplificando le regole per investire nelle blue chips per le società assicuratrici e impone, attraverso la China Securities Regulatory Commission, un bando di sei mesi alle vendite di titoli per detentori di pacchetti azionari che superino il 5%. Funzionerà? Ne dubito. E ancora, essendo in vigore contemporaneamente il bando di vendita per i fondi pensioni e sospensioni a raffica che inibiscono le sell-off, cosa può fare un investitore che non vuole arrivare alla porta d’uscita per ultimo? Coprirsi. Ed ecco che i prezzi sul downside sono letteralmente esplosi, con il costo delle opzioni per proteggersi contro un calo del 10% negli Etf era 11,5 punti in più delle calls che scommettono su un aumento del 10% dei corsi lunedì, stando a dati a 3 mesi preparati da Bloomberg, come ci mostra il grafico a fondo pagina.
Insomma, lo skew è salito a 11,8 punti la scorsa settimana, il massimo dal novembre 2013. E con il margin debt che continua a calare e le margin calls che portano forzatamente alla chiusura di posizioni, il rischio maggiore per i corsi è quello di un abbassamento dei volumi, ovvero fughe di massa. Ma non solo, perché la crisi azionaria ha già i suoi spillover in atto sull’economia reale visto che i materiali cosiddetti raw, dall’argento allo zucchero alle uova, sono crollati anch’essi fino ai limiti di trading ieri. Rame, nickel e argento sono in picchiata, mentre la gomma è entrata addirittura in territorio ribassista, “bear market”. E per Liang Ruian, fund manager della Jianfeng Asset Management di Shanghai, «i prodotti agricoli sono danni collaterali del crollo azionario, visto che i maiali stanno continuando a mangiare, quindi cosa ha a che fare il calo equities con la soia?».
C’è poi un’ultima cosa che voglio dirvi ed è quella che deve preoccuparvi di più: con oltre la metà del mercato in lock-up e che non sta tradando, la vera estensione dei cali e della sell-off non la conosceremo fino a quando quei titoli in continua sospensione non torneranno negoziabili. Ci vorrà un po’, ma quando avverrà, a meno che il governo non decida l’opzione nucleare di un Qe in piena regola, potrebbe essere un nuovo catalizzatore di terrore collettivo e quindi la dinamo di una svendita in piena regola, con gente disperata pronta a scaricare a qualsiasi prezzo ma che non trova nessuno disposto a comprare. A meno che qualcuno, a un certo punto, decida di seguire la regola aurea di comprare sui minimi aziende formalmente profittevoli: dubito siano stranieri in cerca di operazioni da raiders, viste le stringenti regole cinesi sul trading verso soggetti esteri. Chi comprerà, parrucchiere e muratori che già oggi hanno visto bruciato metà e oltre del loro capitale investito?
Una cosa è certa, la bolla è in parte scoppiata, ma come nei copertoni delle biciclette, il mercato globale sta ancora immergendo la camera d’aria nell’acqua per capire dove sia davvero il buco. Attenti a non attendere troppo e scoprire che il buco, in realtà, è uno squarcio non riparabile. Perché cambiare la gomma cinese, costerebbe troppo, significherebbe perdere del tutto l’unico minimo driver di crescita e di commercio al mondo. Significherebbe un altro, lunghissimo ciclo di recessione globale.
E attenzione, perché a giorni proprio sulla costa nell’area di Shanghai è atteso l’arrivo del tifone Chan Hom, con venti oltre i 160 chilometri orari. Ci mancherebbe solo il combinato di crisi azionaria e disastro naturale (per i cittadini ma anche per l’attività economica reale). Se volete, però, continuate pure a preoccuparvi dei pensionati greci e di Alexis Tsipras.