Il prossimo Paese a lasciare l’euro sarà l’Italia. Lo scrive il Washington Post, ragionando come se la Grecia fosse già fuori. Forse getta il cuore oltre l’ostacolo. Forse anticipa un processo irreversibile, visto che le trattative per il secondo salvataggio sono cominciate con il piede sbagliato e con il Fondo monetario internazionale che si ritira sull’Aventino, almeno finché non ci sarà un intervento netto per rinegoziare il debito. La mossa mette nei guai la Germania che non solo non vuole toccare il debito, ma richiede come condizione necessaria il coinvolgimento del Fmi.
Il secondo motivo che rende il giornalista del Washington Post tanto sicuro è che il governo tedesco e ancor più l’opinione pubblica spingono ormai per cacciare i greci, pensando che questo è l’unico modo di salvare la moneta unica. O Atene o Berlino, il mood, frutto di esasperazione ancor più che di pregiudizio, è ormai questo.
Il terzo motivo è che l’Italia da quando ha adottato l’euro è cresciuta del 4,6%. E continua a essere il vagone di coda dell’Europa, come sottolinea l’ultimo bollettino della Banca centrale europea. La crisi ovviamente ha inferto un colpo micidiale. Ci vorranno vent’anni per riprendere il terreno perduto, sostiene il Fondo monetario internazionale. Un’affermazione che ha mandato fuori dai gangheri il governo, forse perché dice quel che tutti gli italiani pensano.
La Bce mette l’accento sulla perdita di reddito pro capite, cioè il vero indice della prosperità di un Paese. E il reddito pro capite aumenta solo se cresce la produttività. Dunque, dietro l’arretramento dell’Italia ci sono i limiti strutturali che hanno reso il Paese poco produttivo (con l’eccezione delle aziende esportatrici, un’avanguardia industriale che non riesce, però, a trascinare l’intera economia). Come a dire riforme, riforme e ancora riforme. Se è vero che la terza economia dell’Eurozona deve diventare più moderna ed efficiente, scrive il Washington Post, è anche vero che non può farlo dentro una gabbia monetaria che le sta troppo stretta. È un’osservazione corretta, sensata, non ci vuole un premio Nobel per capirlo.
Se ha ragione il quotidiano americano, bisogna studiare un piano B, possibilmente meno sconclusionato di quello greco, senza hackeraggio nel sistema fiscale, senza intrusioni di improbabili economisti del Texas, senza consulenti di McKinsey, né amici degli amici ai quali affidare dati sensibili. Semmai meglio affidare tutto alle mani sapienti e leali della Banca d’Italia. In realtà le cose non sono arrivate a questo punto, anche se sarebbe bene prepararsi costruendo una vera politica europea e, possibilmente, una proposta per uscire dall’impasse.
Il ministro delle Finanze tedesco sta lavorando a una serie di ipotesi, a parte la Grexit che per lui resta pur sempre un passaggio non solo inevitabile, ma salutare. In sostanza, Schäuble vorrebbe ridurre il ruolo della Commissione (la concepisce come arbitro più che soggetto politico) attribuendo maggior potere all’Eurogruppo (i ministri finanziari), un organo intergovernativo nel quale la posizione tedesca è preminente. Ma, al di là delle questioni istituzionali, ciò rivela l’abbandono della vecchia posizione federalista, a favore di passi avanti verso la creazione di un’Europa del nocciolo duro, la Kerneuropa che egli stesso aveva proposto nei primi anni ’90.
Ciò apre un conflitto con l’Italia e con la stessa Francia: entrambi i paesi, infatti, hanno detto che non sono disponibili a cedere sovranità all’Eurogruppo o a un nuovo fantomatico ministro delle Finanze europeo, a meno che questo non sia un passaggio verso l’Europa politica. In altri termini, il superministro delle Finanze deve essere espressione di un governo legittimato democraticamente. Ciò è la conseguenza dello stato d’animo che si respira in Italia e in Francia, anche sotto la pressione dei movimenti euroscettici e populisti (5Stelle e Lega in Italia, Front National in Francia). Ma più in generale esprime un disagio di fondo e il rifiuto di accettare la svolta all’orizzonte, il passaggio da una Germania europea a un’Europa germanica.
Sia chiaro, nulla è scontato, siamo nel bel mezzo di uno scontro politico e di un dibattito su diverse impostazioni teoriche. Anche per questo sarebbe bene che il governo Renzi uscisse dal cespuglio e affrontasse apertamente la questione. C’è uno scontro con la Germania? La convergenza con la posizione francese è un passaggio tattico e momentaneo o si sta davvero costruendo una posizione comune? I francesi alla fine si tireranno indietro per vagheggiare ancora una volta l’asse con Berlino, pur sapendo che il cosiddetto “motore d’Europa” è diventato a un solo cilindro?
Sarebbe importante coinvolgere il Paese, il parlamento, gli opinion maker, gli esperti. Non si tratta di una sorta di esperimento intellettuale, ma piuttosto di un vero dibattito sul futuro dell’Italia. Si tratta di rispondere all’antica questione su dove vogliamo andare e con chi, mai risolta una volta per tutte da un Paese che resta sempre aggrappato alle Alpi, ma a rischio di affondare nel Mediterraneo, come si diceva un tempo. Si tratta anche di cercare un nostro modo di modernizzarci e crescere secondo il modello italiano che non è né quello americano, né quello tedesco. Non c’è un solo modo di svilupparsi né un solo modo di essere europei. Lo dimostrano gli stessi paesi dell’est o la Gran Bretagna. Questo non vuol dire, sia chiaro, rifiutare la legge bronzea dello sviluppo: aumentare la produttività dei fattori per aumentare il benessere.
È ingenuo, è utopico tutto questo? Allora continuiamo a discutere e accapigliarci sul Pil che sale dello zero virgola, sul deficit pubblico sotto il 3%, sui risicati margini di flessibilità ottenuti come concessioni dopo essersi prostrati ai piedi di Bruxelles. Oppure andiamo avanti inventandoci nuove promesse senza aver prima realizzato quelle precedenti, così da creare una cortina fumogena che dovrebbe confondere la vista e favorire il negoziato. Questa dimensione tatticistica e opportunistica non porta da nessuna parte. Meglio affrontare di petto le questioni di fondo.