Non è certo piacevole avere il ruolo di colui che porta via gli alcolici quando una festa sta diventando un po’ troppo allegra. Eppure a qualcuno tocca farlo per evitare che il party diventi rave con danni per tutti. Non sono un gufo e condivido, in parte, l’ottimismo mostrato dal Presidente del Consiglio nella conferenza stampa di auguri agli italiani prima dell’interruzione estiva. In ogni caso, sta a lui infondere fiducia ai concittadini. Mentre un chroniqueur con qualche conoscenza di economia ha il compito di fare da coscienza critica e, in particolare, di fare notare i pericoli, specialmente quelli in agguato.



Quando in settembre si dovrà scrivere il Documento di economia e finanza (Def, per gli amici) si dovranno trovare almeno una ventina di miliardi di euro per evitare di finire, un’alta volta, sotto procedura d’infrazione da parte dell’Unione europea. Tutti poniamo grandi speranze in ciò che saranno in grado di fare la Ragioneria generale dello Stato e i dioscuri della spending review (Yoram Gutgeld e Roberto Perotti).



Tuttavia, c’è una minaccia che viene dall’altra sponda dell’Atlantico, che potrebbe rendere il costo molto più alto e di cui pare che nessuno voglia parlare. In breve, non solamente da che tempo è tempo i Presidenti americani (quale che sia il partito) amano andare alle urne con un dollaro forte come segnale del buon stato di salute in cui dopo quattro od otto anni lasciano lo stato dell’Unione, ma da qualche settimana quell’energica Presidente della Federal Reserve (che ama mascherarsi da massaia), Janet Yellen, borbotta che i dati interni sull’economia americana (occupazione, crescita del Pil, aumento dei prezzi all’ingrosso) possono anticipare un “surriscaldamento”. Quindi, perché non pensare che il bell’autunno di Washington (vi ho vissuto 18 anni e vi assicuro che è magnifico) non sia l’occasione per il ritocco all’insù dei tassi direttori d’interesse? Ciò rafforzerebbe ancora il dollaro, con la gioia dell’inquilino pro-tempore della Casa Bianca, pur se in fase di imminente trasloco.



La signora Yellen, come peraltro i suoi predecessori, danno poca importanza sia agli aspetti internazionali dell’economia Usa, sia all’ impatto delle misure di politica monetaria americana sul resto del mondo. Eppure un lavoro fresco di stampa della Banca dei regolamenti internazionali afferma che tre trilioni (3 mila miliardi) di dollari sono nelle mani di non residenti americani, molto sensibili ai tassi d’interesse. In parallelo, uno studio del Fondo monetario internazionale sostiene che a ogni episodio di “dollaro forte” ha fatto seguito una crisi dei mercati emergenti (perché i flussi di capitale corrono verso il mercato americano).

In materia, la Banca centrale europea (sempre che in questi giorni vacanzieri si riesca a trovare qualcuno nelle Torri di Francoforte) tace. O meglio afferma che chi vivrà, vedrà. Certamente il servizio studi della Bce ha prodotto simulazioni quantitative da condividere con le altre banche centrali dell’eurozona e, perché no, con i Governi alle prese già ora con le politiche di bilancio.

Infatti, un aumento – non tanto eventuale – dei tassi Usa porrebbe seri problemi all’Eurozona. Se resta immobile, la fuga di capitale può mettere a rischio quei sintomi di possibile ripresa che si cominciano ad avvertire, specialmente in quei paesi che stoltamente stanno progettando una maxi-patrimoniale (soprattutto sull’edilizia) mascherata da “ritocco tecnico” all’imposta di successione. E che fine faranno il Quantitative easing e le Outright monetary transactions?

Non sono domande ferragostane, ma meritano una risposta. Chi si ferma è perduto. Ammoniva un vecchio film di Sergio Corbucci con Totò, Aroldo Tieri, Peppino De Filippo, Albero Lionello e Lia Zoppelli.