“Possiedo una sfera di cristallo. Purtroppo, però, è stata prodotta in Cina. Perciò non so quanto sia affidabile”. Così, con impeccabile humour britannico, un operatore di Hong Kong ha commentato poco prima delle 9 del mattino locali l’attesa per il fixing del renmimbi. Le regole della Banca centrale cinese, infatti, prevedono che ogni mattina alle 9:15 venga comunicato il prezzo di riferimento della valuta locale rispetto a un paniere di valute (nei confronti del dollaro, soprattutto). Per quel giorno lo yuan potrà muoversi entro una forchetta del 2% in su o in giù. 



L’operazione, dal 2005 in poi, non ha registrato grosse sorprese. Fino a martedì, quando Pechino ha fissato la parità a un valore inferiore dell’1,9% al prezzo precedente. Un taglio che si è ripetuto il giorno dopo con un altro taglio dell’1,6%. E poi, un terzo ribasso dell’1%, deciso ieri, con effetti però assai diversi per le Borse occidentali. I primi due ribassi, infatti, hanno avuto effetti devastanti sui listini occidentali. Ieri, invece, i mercati hanno recuperato posizioni. Perché? 



Buona parte del merito va al vicepresidente della Banca centrale cinese, Yi Gang, che ha tenuto una conferenza stampa (evento quasi unico) per tranquillizzare i mercati e spiegare la strategia di Pechino. “Le speculazioni su una nostra presunta volontà di spingere lo yuan giù del 10% – ha detto – sono prive di fondamento”. “È nostra intenzione dare più spazio alle forze di mercato per determinare il valore del renmimbi”. Ovvero la banca centrale esaminerà l’andamento della domanda e dell’offerta prima di proporre la base del fixing. Mercoledì, ad esempio, Pechino ha preso atto che lo yuan aveva registrato un calo dell’1.3 % negli scambi adHong Kong contro l’1% scarso dell’andamento delle operazioni domestiche, perciò è stato proposto un nuovo valore al ribasso e non è difficile prevedere che, nel prossimo futuro, la tendenza proseguirà, anche se a livelli sempre più contenuti, perché ormai il cambio s’avvicina a un valore adeguato.



La spiegazione convince, ma non del tutto. Perché innescare la riforma proprio adesso? La risposta sta nella congiuntura cinese, in un momento di grande fragilità: i dati sulla produzione industriale (+ 6%, ma in netta frenata) hanno confermato le difficoltà già emerse con la frenata dell’import/export (-8% abbondante) e con il calo di vendite di auto, il primo da cinque anni a questa parte. Frenano gli acquisti via e-commerce, come emerge dai conti del gigante Alibaba, così come gli acquisti di i-Phone. Una spinta all’export grazie a una svalutazione competitiva sarebbe auspicabile, anche perché la Cina che finora ha difeso un legame, seppur soft, con il dollaro ha rivalutato la sua moneta verso le economie asiatiche o dei Paesi emergenti. 

Insomma, secondo questa versione, Pechino ha deciso di rilanciare la sua locomotiva economica, sempre orientata sulla crescita dell’export, con una svalutazione competitiva oltre che con le misure espansive già avviate sul fronte monetario. Una strategia nemmeno troppo diversa rispetto all’Abenomics giapponese che, pur negando la volontà di svalutare sul dollaro, ha favorito il deprezzamento della moneta. O rispetto alla politica di Mario Draghi: l’espansione monetaria ha prodotto, tra le altre conseguenze, l’indebolimento dell’euro con forte giovamento per l’industria manifatturiera. Ma il Drago cinese, date le dimensioni, fa comunque rumore. E rischia di complicare i calcoli della Federal Reserve: una rivalutazione del dollaro comporta grossi problemi per la Corporate America; non solo diventa più difficile esportare, ma, ancor più grave, i profitti realizzati fuori dagli Usa valgono di meno, una volta incorporati nei bilanci delle case madri. Il rischio, insomma, è che si inneschi una guerra valutaria, con il rischio di rallentare l’aumento dei tassi Usa e di alimentare con nuovo ossigeno, la bolla monetaria.

Ma c’è un’altra spiegazione, confortata dalle parole del banchiere cinese. Il presidente Xi Jinping, che tra un mese si recherà in visita ufficiale a Washington, attribuisce grande importanza strategica all’ingresso dello yuan nel paniere dei diritti speciali di prelievo del Fondo monetario internazionale, assieme a dollaro, euro e yen. È un passaggio strategico decisivo per legittimare gli sforzi di Pechino per acquisire un peso e un prestigio internazionale adeguato alla forza della sua economia. Dalla nascita della Aiib (Asian infrastructure investment bank) agli investimenti nelle Borse europee (con un occhio particolare per Piazza Affari) la dirigenza di Pechino non ha lesinato gli sforzi per dimostrarsi degna di entrare nel club più esclusivo. Ma, dopo segnali incoraggianti da Washington, negli ultimi tempi l’atmosfera si era fatta meno promettente. 

Certo, nessuno discute la solidità di una moneta che ha alle spalle 3.500 miliardi di dollari di riserve valutarie, ma la forza finanziaria non è l’unico requisito richiesto: Pechino, prima di ottenere il visto, deve dimostrate che lo yuan èfreely usable e non una moneta manipolata a vantaggio della politica cinese. Il ricorso a regole più flessibili nella fissazione dei cambi, insomma, risponde all’esigenza di venire incontro alle richieste del Fmi. Anche perché la decisione sulla composizione dei diritti speciali di prelievo dovrà esser presa di qui a pochi mesi. E, particolare non da poco, le regole prevedono che i diritti speciali possano esser modificati solo ogni cinque anni. Ora o mai più, dunque. 

La posta in gioco è altissima. Il mondo ha molto da guadagnare dall’ingresso a pieno titolo della Cina nel governo del sistema finanziario globale. Ma perché la rivoluzione non si traduca in un disastro, occorre che il mondo si fidi della Cina. Ovvero che Pechino, in vista della convertibilità piena della sua moneta (ci vorranno 2-3 anni, prevede il Fondo monetario internazionale) non usi lo yuan debole come arma per una concorrenza commerciale sleale.