«Compito della manovra è tenere conto che ci troviamo con un Paese spaccato a metà. Da un lato ci sono le imprese medio-grandi, che assumono e beneficiano di decontribuzione e Jobs Act. Dall’altra microimprese, piccolo commercio e artigianato sono stati quasi rasi al suolo dalla recessione». A parlare è il professor Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison. Il governo è già al lavoro per cercare le coperture per la legge di stabilità, il cui ammontare sarà di almeno 25 miliardi di euro. Obiettivo numero uno: scongiurare l’entrata in vigore delle clausole di salvaguardia, con tanto di aumento dell’Iva e delle accise. Ma anche cercare di non falcidiare questa prima brezza di ripresa, con il Pil che nel secondo semestre 2015 ha registrato il +0,2%.
Visto l’attuale quadro, l’abolizione della Tasi sulla prima casa è una buona idea?
L’abolizione della Tasi è un intervento che può dare un segnale ulteriore, soprattutto al ceto medio. Significa infatti che i tempi bui sono passati e che il risparmio tutt’ora accumulato anziché speso per motivi prudenziali può essere finalmente liberato. Dalle statistiche sulle vendite al dettaglio e dall’indice della Confcommercio emerge che a partire da giugno-luglio 2014 si è registrata la fine della caduta dei consumi.
Quindi siamo in ripresa?
La ripresa c’è, ma è ancora molto modesta perché una parte cospicua dell’incremento del potere d’acquisto è accumulato in risparmio. La gente teme le tasse future e lo stesso quadro internazionale, e del resto ricordiamoci che soltanto ai primi di luglio eravamo in balia di un’eventuale Grexit. L’unica economia europea che sta crescendo al di là delle aspettative è quella spagnola, ma ciò sta avvenendo in gran parte in deficit spending.
Un prolungamento della decontribuzione dei contratti può essere efficace per rilanciare l’occupazione?
La decontribuzione è una misura efficace, ma in questo momento noi ci troviamo con un Paese spaccato in due e a queste condizioni è molto difficile avere una crescita complessiva del Pil. Il piccolo commercio e l’artigianato sono stati quasi rase al suolo dalla recessione.
Che cosa ci rimane?
Abbiamo le imprese estere dell’industria e del commercio, che possono essere divise in due tipologie. Da un lato quelle che hanno aumentato gli investimenti, come la farmaceutica, dall’altra quelle dei servizi a rete, dell’elettronica e delle telecomunicazioni, che dal 2011-2012 hanno approfittato della crisi per chiudere le loro sedi in Italia. Da un lato ci sono multinazionali che se ne vanno, e dall’altra quelle che il governo è riuscito a trattenere nel Paese. La conseguenza è una crescita zero in termini di produttività e di occupazione.
Qual è lo stato di salute delle imprese italiane?
Anche queste sono spaccate in due. Microimprese e artigianato sono state falcidiate dalla crisi, mentre le aziende esportatrici più strutturate sono riuscite a compensare con l’export la fase più difficile della domanda interna. Questa seconda tipologia di imprese non solo non ha perso posti di lavoro, ma grazie a alla loro efficienza è anche riuscita ad aggiungerne sia pure con fatica.
Quindi è giusta la politica seguita dal governo?
Decontribuzione e Jobs Act sono state provvidenziali, ma solo per le imprese più strutturate. Le aziende medio-grandi hanno aumentato il numero di occupati, mentre quelle micro o piccole li hanno ridotti ulteriormente.
Perché?
Una piccola impresa non è in grado di cogliere le opportunità della decontribuzione e di cambiare completamente la sua visione solo perché è stato introdotto il Jobs Act. Mentre una multinazionale straniera o una media impresa italiana appena si introducono degli incentivi inizia ad assumere. Va tenuto conto però del quadro complessivo della situazione. Lo stesso indice Pmi di Markit si focalizza solo sulle imprese medie o medio-grandi. Non a caso nel mese di luglio rimarca: “Incredibile aumento dell’occupazione negli ultimi quattro mesi”. È però un aumento che tiene conto solo di metà del panorama, che come dicevo si presenta spaccato in due.
(Pietro Vernizzi)