Non c’è che dire: è un’estate di grandi numeri, record degni del Guinness dei primati. Prendiamo il petrolio. I prezzi precipitano a livelli quasi impensabili solo pochi mesi fa: l’altra notte il Wti è scivolato a 40,4 dollari il barile, in calo del 5,2% sulla vigilia ai valori più bassi dal 3 marzo 2009. Il Brent è sceso a 46,85 dollari (-3,4%) ben al di sotto della soglia psicologica dei 50 dollari. Il future del greggio si è inabissato dopo la pubblicazione dei dati sulle scorte strategiche di idrocarburi negli Stati Uniti, molto più alte del previsto. Ma ben altri segnali suggeriscono che la crisi sarà lunga. Mercoledì l’asta per aggiudicarsi 33 lotti di esplorazione nelle acque del Golfo del Messico ha registrato solo cinque offerte. I colossi del greggio, da Exxon a Conoco Philips e Bp non hanno presentato alcuna offerta. Intanto il Kazakhstan, il Paese degli immensi giacimenti di gas e di greggio di Kashagan, ha deciso di adottare la libera fluttuazione della valuta dopo aver aggiornato la previsione di un prezzo del petrolio, che vale circa la metà dell’export, tra i 30 e i 40 dollari. La risposta del mercato non si è fatta attendere: -23% contro il dollaro.



Sono solo due esempi della guerra sul greggio scatenata dall’Arabia Saudita per metter fuori mercato lo shale oil americano e chiudere spazi di mercato al petrolio di Teheran, in attesa della fine dell’embargo. Ma, complice la caduta dei consumi della Cina, la crisi delle commodities è ormai entrata in una spirale perversa in cui non si vedono vincitori. Nemmeno tra i consumatori: agli occhi dei mercati finanziari i risparmi per i consumatori, tra l’altro assai modesti per quelli italiani su cui pesano tasse e accise crescenti, oltre al sospetto aumento dei profitti dei raffinatori (il titolo Saras sale da inizio anno del 190%), non sono sufficienti a rilanciare i consumi. Nemmeno in Usa, dove il colosso Wal Mart ha lanciato un warning sulle vendite di qui a fine anno. In compenso, crollano gli investimenti dell’industria petrolifera, con grave danno per il manufacturing. Intanto la caduta dei prezzi petroliferi colpisce nel cuore la guerra contro la deflazione.



Forse gli umori e le reazioni dei mercati finanziari sarebbero diversi se non si fosse manifestato dall’inizio di luglio in poi l’effetto C, ovvero la variabile rappresentata della crisi cinese. Inutile soffermarsi sulle spiegazioni della svalutazione del renmimbi, seguita alla crisi della Borsa di Shanghai e al tracollo dell’export. Merita semmai sottolineare che il Fondo monetario internazionale non ha ritenuto di dover inserire lo yuan nel paniere dei diritti speciali di prelievo assieme a dollaro, euro e yen. Se ne riparlerà nel 2016, quando la moneta cinese avrà dimostrato di saper sostener una maggiore flessibilità. Una decisione analoga era stata presa, a giugno, da Morgan Stanley che aveva rinviato l’ingresso delle Borse cinesi nel paniere Msci che seleziona i titoli per i gestori dei fondi di investimento. Grazie alla prudenza della casa Usa, i quattrini di milioni di risparmiatori dell’intero pianeta non sono stati coinvolti nel crac dei listini del Drago. 



La Cina, insomma, resta ancora un Paese diverso. Per certi versi assolutamente sconosciuto, come dimostra il reportage del Financial Times da Jingjin, città fantasma costruita sette anni fa tra Pechino e Tianjin, il porto investito dalla catastrofe ambientale: un investimento immobiliare su un’area doppia di Manhattan, abitato solo dagli addetti alla manutenzione o dei venditori che tentano invano di vendere una delle 2 mila lussuose residenze (più altre 4 mila ancora da costruire) che stanno cadendo a pezzi. La Cina di oggi, ammonisce il giornale, vanta numerose Jingjin ove sono state dilapidate immense risorse per sostenere la congiuntura sfidando le leggi del mercato. La svalutazione altro non è che l’ultima risorsa per sostenere l’industria manifatturiera, assieme all’edilizia, uno dei due cilindri della lunga crescita del Drago. 

Ma la svalutazione di Pechino interviene in un quadro ad alta tensione. Rupia indiana, ringgit malese, dong vietnamita e lira turca registrano nuovi minimi nei confronti del dollaro. L’indice azionario Morgan Stanley Capital Index Emerging Markets si muove su livelli che non si vedevano da quattro anni. E, quel che è peggio, la crisi economica fa da detonatore per nuove crisi politiche, da Istanbul a Bangkok, passando per Rio de Janeiro. Senza dimenticare Mosca, schiacciata dal tracollo (-40%) del rublo. 

Data la situazione, non stupisce che il ribasso abbia cominciato a contagiare le Borse occidentali. La stessa Federal Reserve sta prendendo atto che il mix petrolio+Cina minaccia di complicare i piani di rialzo dei tassi. L’Europa fa i conti con le minori vendite del lusso ma anche dell’automotive, oltre al rischio di una frenata del turismo da Oriente che va ad aggiungersi al calo degli acquisti russi. E la soluzione della crisi greca (aldilà delle annunciate dimissioni di Tsipras) non consola più di tanto: già batte alle porte, tanto per tenere alta la tensione dell’Eurozona, la prossima campagna elettorale in Spagna. 

Insomma, come dimostrano i prezzi delle materie prime e delle valute il mondo si avvicina pericolosamente ai numeri del 2009, sotto la pressione della crisi Lehman. Allora, a favorire la ripresa fu la forte espansione della Cina, garantita dal boom del credito e dall’afflusso dei capitali verso Est. Oggi al contrario, circa 1.100 miliardi di dollari hanno lasciato i Brics negli ultimi 13 mesi. E la Cina non può svolgere il ruolo di locomotiva. Sarebbe necessario un cambio di passo delle economie occidentali. Ma né l’Europa, né gli Usa sono in grado di (o vogliono) assumere l’iniziativa.