Quando IlSussidiario.net lo raggiunge, Carlo Cottarelli è a Cremona, dov’è nato 61 anni fa. Se se pol mia fa, se fa sensa, in dialetto locale, è un po’ il motto di “La lista della spesa – La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare”(Feltrinelli), il libro in cui l’economista ha raccolto la sua esperienza di commissario alla spending review, nominato dal governo Letta. Dal 31 ottobre scorso Cottarelli è tornato al Fondo monetario internazionale, come executive director in rappresentanza dell’Italia e di altri 5 paesi. Ma nei ranghi dell’istituzione di Washington ha lavorato per oltre 25 anni dopo un tirocinio in Banca d’Italia, in ruoli di crescente responsabilità, occupandosi soprattutto di finanza pubblica (è stato fra l’altro direttore di “Fiscal Monitor”, una delle tre riviste del Fondo).
Al Meeting 2015 è stato invitato dal presidente della Compagnia delle Opere, Bernard Scholz, per un intervento a tutto campo sulle prospettive dell’economia globale. Proprio pochi giorni fa Moody’s ha indicato nell’1% il progresso prevedibile per il Pil italiano nel 2016: «Ci sono spazi per una crescita più accentuata» dice Cottarelli, che per l’opinione pubblica italiana è e rimane l’autore dell’ultimo “manuale di istruzioni” per quella che resta “la madre di tutte le riforme” nella politica italiana: il taglio strutturale della spesa pubblica in Italia.
Il premier Renzi ha preannunciato un “taglio delle tasse” di 50 miliardi per stimolare la ripresa. Il ministro dell’Economia Padoan ha puntualizzato che la premessa è una riduzione della spesa pubblica, utile anche a rendere strutturale l’alleggerimento fiscale.
La verifica dei margini di riduzione della pressione fiscale in Italia è stato l’obiettivo del lavoro di revisione della spesa che mi è stato affidato dal governo italiano e che ora altri stanno continuando e sviluppando. Il rapporto che ho presentato nel marzo 2014 indicava in 32 miliardi i possibili risparmi nell’arco di tre anni ma ora l’orizzonte temporale si e’ allungato e si può andare oltre.
Poco più di 10 miliardi all’anno cumulati per tre anni. È una guideline ancora valida per la legge di stabilità 2016 che il Governo si accinge a definire?
Sarà il governo, ovviamente, a decidere valori e profili della manovra. Già sono stati fatti tagli importanti. La legge di stabilità per il 2015 ha incluso originariamente tagli per 12 miliardi (poi ridotti a 8 al netto di aumenti di spesa prioritari come i sussidi di disoccupazione) anche se il risparmio effettivo dovrà essere valutato a consuntivo anche alla luce di interventi successivi (fra l’altro è giunta anche la pronuncia della Corte costituzionale sulla riforma previdenziale che comporta spese addizionali anche se in gran parte una tantum). In Europa molti Paesi stanno studiando tagli di spesa aggressivi per accelerare la ripresa: la Francia punta a risparmi per 53 miliardi fino al 2017.
Come valuta la riforma della Pubblica amministrazione?
È una riforma molto importante, che riprende molti dei temi della revisione della spesa da me condotta. Direttrici come il riordino della dirigenza, la presenza sul territorio dell’amministrazione centrale e la razionalizzazione delle forze di polizia sono importanti. Occorre ora vedere come la riforma sarà implementata: il Ministro Madia, che ho incontrato a maggio accompagnado la missione del Fmi in Italia, ha indicato che i decreti attuativi saranno emanati entro pochi mesi. Analogamente, si attendono sviluppi concreti sullo sfoltimento delle aziende a partecipazione pubblica: che nel loro perimetro più largo sono 10mila e che la commissione che ho guidato ha stimato possano essere ridotte fino a un decimo, con benefici attesi fra i 2 e i 3 miliardi all’anno.
Con la manovra d’autunno il Governo intende presentare misure di flessibilità in uscita dal lavoro verse la pensione. Quali sono le prevedibili ricadute sulla spesa previdenziale?
È naturalmente impossibile rispondere senza conoscere le tecnicalità e le cifre del progetto. Sulla carta vi sono spazi per assestamenti tendenziali della spesa previdenziale, così come c’è il rischio che – all’opposto – il costo delle pensioni possa aumentare nel medio-lungo periodo.
Come racconta anche nel libro, una parte del suo lavoro di scavo nella spesa pubblica italiana ha puntato sulla tax expenditure: sulle agevolazioni fiscali. Soprattutto alle imprese.
La problematica presenta profili sia quantitativi che qualitativi. Il punto non è eliminare agevolazioni tout court: è invece individuare dove e in quale misura il beneficio va a un soggetto che non ha bisogno di supporto da parte dello Stato. E i casi possono essere macroscopici. Quando, ad esempio, viene concessa un’aliquota Iva agevolata, raramente si considera che il beneficio interessa indistintamente tutti gli acquirenti di un prodotto o servizio: anche quelli ad alta capacità contributiva. Questa è un’attenzione che il Fondo monetario richiama spesso nelle sue raccomandazioni, a diversi Paesi.
In Italia il tema del “costo della politica” continua a essere al centro del dibattito pubblico: che idea si è fatto nel corso della sua review ?
Il “costo della politica” inteso come onere complessivo degli organi costituzionali e delle amministrazioni locali non supera i 5 miliardi sui circa 740 di spesa pubblica primaria (cioè al netto degli interessi sul debito pubblico). È peraltro evidente che sia un dato sensibile presso l’opinione pubblica. E Parlamento, Governo, Regioni – recentemente anche la Presidenza della Repubblica – hanno mostrato volontà di reazione positiva: in particolare su stipendi e vitalizi. Ma si può senza dubbio fare di più.
Le Regioni stanno attraversando un passaggio delicato: indicate per molti anni come soggetti sempre più rilevanti nella “macchina” della spesa pubblica (anche in chiave di uno sviluppo ipotizzato per il federalismo) oggi sono sotto pressione da vari fronti: in particolare da una apparente tendenza ri-centralizzatrice nella gestione della spesa pubblica.
È un dato di fatto che la spesa delle Regioni abbia registrato una contrazione nominale del 17% al netto della componente sanitaria tra il 2009 e il 2013, con tagli ulteriori nel biennio seguente. La spesa sanitaria si è pure ridotta anche se per importi più contenuti. Su quest’ultima è inequivocabile che alcune inerzie nell’efficientamento siano superabili e che forme di sollecitazione da parte dell’amministrazione centrale possano rivelarsi utili. Una questione rilevante è quella degli acquisti di beni e servizi da parte delle amministrazioni sanitarie e, più in generale, da parte delle pubbliche amministrazioni. In termini di miglioramento del management degli acquisti, la revisione della spesa che ho guidato ha suggerito la creazione di 34 centrali di acquisto per ottimizzare il costo delle forniture al di sopra di soglie determinate, una riforma che e’ in avanzata fase di attuazione.
La spesa pubblica è un problema centrale della finanza pubblica italiana, ma non l’unico: il debito resta ancora fra i più alti d’Europa. Esistono soluzioni taglia-debito realisticamente praticabili?
Sul tema ho iniziato a riflettere approfonditamente, per un nuovo libro.
“Se non si può fare si fa senza”: il proverbio cremonese che lei cita nel suo libro sembra guardare oltre il taglio e il miglioramento qualitativo della spesa pubblica. Dove la spesa pubblica non arriva o non può più arrivare, si può fare “senza” spesa pubblica: ed è il terreno della sussidiarietà, soprattutto nella creazione di un nuovo welfare.
Certamente: nella mia esperienza al Fondo monetario ho potuto osservare in numerosi paesi una pluralità di sforzi per sostituire la spesa pubblica nella generazione di servizi collettivi per le persone.
(Antonio Quaglio)