“La notizia della mia morte è fortemente esagerata”. Se Xi Jinping fosse spiritoso come Mark Twain dovrebbe inviare lo stesso telegramma ai giornali mondiali che stanno soffiando sul fuoco della crisi cinese. Che crisi sia non c’è dubbio. Ma di che crisi si tratta? E siamo sicuri che le conseguenze saranno tutte negative per i paesi mercati emergenti e per l’Europa?
La finanza si muove con scoppi di euforia e panico e le borse nei giorni scorsi hanno confermato ancora una volta la celebre narrazione di Charles Kindleberger. L’economia reale a sua volta cambia direzione attraverso l’alternarsi di boom e sboom. È chiaro da tempo che la Cina si era avviata su una strada pericolosa fatta di eccesso di capacità produttiva e speculazione immobiliare, debiti pubblici fuori controllo anche perché annidati in periferia e non nello sStato centrale, un’inflazione repressa e nascosta, un credito facile elargito dalle banche legate al partito comunista.
Il cambio di passo, anzi addirittura di modello economico, è quel che predicano Xi e Zhou, i due uomini più potenti, cioè Xi Jinping il gran capo del partito e dello stato e Zhou Xiaochuan, il governatore della banca centrale che ha convinto la nomenklatura comunista a svalutare il renminbi, la moneta del popolo. La svolta è complessa e dolorosa, ormai anche i nostalgici del Gosplan avranno capito che non può avvenire in modo pianificato, bensì attraverso una crisi strutturale.
L’era dell’armonia, da tempo proclamata, non esiste, né sotto il capitalismo, né sotto il comunismo pianificato e tanto meno con il comunismo di mercato. Le bolle scoppiano non si sgonfiano, il problema è ridimensionarne l’esplosione e contenerne gli effetti. Nel 2008 i paesi occidentali non ci sono riusciti. E la Cina ha offerto loro una ciambella di salvataggio, spingendo al massimo la sua economia. Oggi tocca all’Occidente fare da ammortizzatore e aiutare la transizione cinese. È nel loro interesse oltre che in quello dell’economia mondiale. Come?
Gli Stati Uniti possono dare una mano innanzitutto rinviando l’aumento dei tassi d’interesse. Ma c’è anche un filo che collega Pechino, Berlino, Atene e Roma. Bisogna saperlo interpretare e soprattutto essere in grado di prenderlo in mano. Il filo si chiama in realtà domanda interna.
Come in Cina si chiude l’era della Fabbrica mondiale per cercare un nuovo equilibrio tra industria e servizi, tra accumulazione e distribuzione, così in Europa tramonta l’era dell’export a tutti i costi e dell’austerità. Il modello, che la Germania ha saputo mettere a frutto meglio di ogni altro, era basato su una repressione della domanda interna (salari, pensioni, welfare) e un pizzico di protezionismo, compensato dal primato della domanda estera verso l’Estremo oriente e il Sud America. Ciò ha prodotto una sorta di perversione neomercantilistica che ha fatto accumulare alla Germania un attivo della bilancia con l’estero pari al 7%, superiore a quello cinese nella fase della grande espansione. Oggi è chiaro che il primo motore deve diventare domestico.
Il riequilibrio dovrebbe riguardare anche i mercati emergenti. Piangono per la riduzione dei prezzi delle materie prime, ma anche il loro modello di sviluppo, trascinato dalla fame cinese di soia, derrate alimentari, energia, era sballato.
Si pensi al Brasile, il Paese che più di tutti aveva saputo approfittare del ciclo cinese: il suo miracolo si è rivelato effimero, la nuova classe media è in trappola, non va né avanti né indietro, gli oligarchi alla samba sono crollati (come Eike Batista) o si rivelano politicanti corrotti e inefficienti (vedi lo scandalo del gruppo petrolifero Petrobras). Dunque, un cambio di paradigma basato su più solide fondamenta nazionali è una necessità dal Messico all’Argentina, dalla Nigeria al Vietnam (che pure trae un vantaggio momentaneo dalla crisi cinese).
Per l’Europa che ristagna, è una questione di sopravvivenza. La brusca frenata dei grandi gruppi tedeschi che avevano puntato tutto sulla Cina sta suonando un campanello d’allarme. Si sentono sempre più voci influenti discettare su come andare “oltre l’austerità”. La stessa scelta di appoggiare Tsipras anche sulle elezioni anticipate è un segnale importante di questo cambiamento di umore se non proprio di opinione.
Dunque, è arrivato il momento di mettere apertamente sul tavolo la questione considerata in questi anni un tabù: il rilancio della domanda interna nell’Unione europea, a cominciare dalla Germania, e via via anche nei paesi che più stentano a crescere, tra questi la Francia e, soprattutto, l’Italia. Con una differenza di fondo: l’Italia sta seguendo la via di riforme importanti per rendere il proprio mercato interno più ricettivo, la Francia non ancora.
È una nuova occasione per Matteo Renzi. Speriamo che i suoi consiglieri glielo sappiano spiegare. Lo ha senza dubbio capito il ministro dell’Economia: con la sua esperienza al Fondo monetario e all’Ocse, oltre che con la sua preparazione, Pier Carlo Padoan sa interpretare i cicli economici. Poi, tra leggere i fondi del caffè e agire di conseguenza c’è di mezzo l’oceano. Quale domanda interna, per consumi o per investimenti? Pubblica o privata? Se il cavallo ha acqua, ma non beve, che fare? Ma questa è un’altra puntata.