I sistemi welfare nascono come risposte a una serie di mancanze, carenze, handicap delle persone e delle società. Ma “di che è mancanza” il welfare di cui abbiamo bisogno noi in questo tempo? È evidente che, contrariamente a quello che ci si immaginava negli anni del welfare espansivo, il progresso economico non ci ha portato una minore domanda di protezione sociale, anzi accade esattamente il contrario, così come evidenti e stridenti sono i “fallimenti” del sistema di welfare tradizionale occidentale pensato soprattutto come intervento che doveva riequilibrare le iniquità determinate dalle inefficienze di Stato e Mercato.
Per questo abbiamo sempre più bisogno di un “nuovo welfare” che risponda alle incomprimibili esigenze di protezione sociale e di cura. Un welfare che va inventato e che necessariamente richiede una capacità di trasformazione e di innovazione straordinarie che abbiamo il dovere di cercare, con un anelito e una “fame” altrettanto forti di quelle che hanno le trasformazioni epocali che si sono realizzate nelle tecnologie delle comunicazioni, che molto più di quanto non ci accorgiamo comportano anche delle mutazioni antropologiche, di cui spesso noi “operatori sociali” ci accorgiamo in ritardo.
Per molti aspetti le mancanze a cui rispondere oggi con i sistemi di welfare sono le stesse da secoli: le forme di esclusione sociale, le varie forme e sfaccettature delle povertà; le dipendenze e la disabilità, la malattia, le diseguaglianze nell’accesso a servizi e conoscenze. Ma forse su tutte la domanda principale che interroga oggi i sistemi di welfare è una domanda di relazione, di senso e di legami di fiducia. Una restituzione di speranza e di vita.
Se guardiamo davvero quale impatto hanno realizzato i sistemi di welfare nel nostro Paese negli ultimi anni per quanto riguarda la riduzione delle diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza (non ripeto dati noti) abbiamo la certificazione del fallimento. In un certo senso nei sistemi di welfare continuiamo a migliorare le procedure, a qualificare l’offerta, professionalizzare le relazioni, strutturare gli standard, ma fatichiamo a leggere la domanda. Del resto tutti sappiamo come sia rassicurante e assolutorio dirsi, davanti a un problema che non si risolve, “Io però ho applicato correttamente la procedura!”.
Si rischia così di rispondere alla carta, al formulario, e non alla persona. Anziché “riempire il cuore” della mancanza che la domanda di una persona ci porta con i suoi bisogni e la sua umanità, finiamo per riempire un modulo… e quindi rischiamo di perdere di vista il bambino, l’adolescente, l’anziano, la persona disabile, la famiglia che abbiamo di fronte, che diventano una “cartella” clinica o un formulario.
Ecco allora l’urgenza di trovare le modalità per valorizzare la sussidiarietà e la promozione delle capacità e competenze personali per generare nuovo welfare, lasciando spazio nuovo alla libertà di iniziativa. Credo che serva investire di più in “fiducia istituzionale” e valorizzare esperienze che sappiano essere generative, ma per fare questo serve anche un grandissimo sforzo culturale, migliorando la propensione di ciascuno di noi al cambiamento.
Per questo credo che gli interventi di welfare debbono essere a tutti gli effetti considerati come politiche dello sviluppo locale: progetti di inclusione sociale, realizzati connettendo le diverse risorse del territorio, hanno generato potenzialità per iniziative economiche che si sono estese a settori diversi dell’economia locale, dall’agricoltura al turismo, dall’energia alla tutela dell’ambiente e la valorizzazione di beni dismessi.
La maggiore strutturazione, che certo è utile per conseguire autorizzazioni e accreditamenti, frequentemente determina che imprese sociali, nate con una forte vocazione innovativa e sussidiaria, sono diventate eccessivamente “adesive” dei codici omologanti delle istituzioni della cura, utili per qualificare offerta e incrementare la professionalità, ma che finiscono per avvizzire l’innovazione e la responsabilizzazione delle persone, trasformate sempre in utenti o clienti, ma raramente in “co-produttori”.
Accade così che la valutazione degli esiti scompare dentro la valutazione del livello di compliance ai protocolli operativi. Si rinuncia così a una valutazione di impatto più ampia, capace di misurare le conseguenze complesse delle azioni. Una valutazione che non può essere il resoconto binario di una causa che genera un effetto, cosa del resto pressoché impossibile in campo sociale, dove la complessità delle variabili rende difficile quella “risonanza regolare” delle misurazioni fisiche.
Questa complessità per troppo tempo è stata un alibi per rinunciare alla valutazione degli esiti e alla misurazione degli impatti sociali degli interventi. Ora il tema della misurazione degli impatti sociali è salito alla ribalta, nell’ambito delle iniziative in corso a livello europeo e non solo, intorno al tema dell’impresa sociale. Tanto che il G-7 ha dato vita a una specifica “task force” sul “social impact investment“.
Credo sia un’occasione da non perdere, per cercare di realizzare innovazione, ma soprattutto per avviare delle ricerche valutative e definire dei sistemi di misurazione degli impatti sociali, che ci aiutino davvero a rilevare il valore sociale ed economico degli interventi sociali. Dobbiamo cogliere questa occasione per chiedere, ad esempio, al mondo della finanza che si dichiara interessato a investire nelle imprese sociali, di sostenere i costi comunque importanti che l’implementazione di un sistema di valutazione richiede.
In questa prospettiva il nostro ruolo, come dirigenti del terzo settore, dovrebbe essere quello di sviluppare sistemi di valutazione degli impatti sociali mettendo al centro la dignità dell’uomo e la ricerca di un progresso sociale, sgombrando il campo anche dalle stratificazioni ideologiche e politiche che spesso hanno caratterizzato e caratterizzano gli interventi di welfare.
Nel terzo settore sul tema della valutazione scontiamo anche un difetto d’origine: in molti casi gli interventi realizzati da enti del terzo settore sono considerati “buoni per definizione”, perché sono mossi da una finalità etica o caritativa, mentre credo sia indispensabile che tutti gli interventi sociali vengano valutati a partire dal risultato che ottengono cercando di esplorare anche quegli effetti che hanno ricadute più ampie che travalicano il singolo progetto o lo stretto ambito in cui si realizzano.
Per questo ripongo tante attese positive nella crescita di una cultura dell’imprenditoria sociale e credo che l’impresa sociale possa essere un agente di innovazione importante per i sistemi di welfare. Secoli di storia economica e imprenditoriale hanno dimostrato il potenziale di trasformazione e innovazione degli uomini organizzati in impresa. Credo che questo potenziale evolutivo non si sia ancora espresso a pieno nei sistemi di welfare, dove la forma di impresa sociale, è la più adeguata.
Organizzare la solidarietà per prendersi cura dell’altro; sviluppare forme di impresa di comunità per rispondere ai bisogni sociali e gestire beni comuni è una grande sfida per il terzo settore, ma è anche un’occasione per reinventare radicalmente la “funzione pubblica” in questo Paese. Organizzare queste attività in forma d’impresa è anche un modo per mettere immediatamente tutto il sistema di welfare davanti alla necessità di misurare efficacia ed efficienza, e quindi anche la sostenibilità economica e gli impatti sociali.