C’è una visione in base alla quale un’impresa è “dal volto umano” se lascia alla vita extra-lavorativa molto più spazio rispetto a quel che accade di solito: credo sia una visione riduttiva. Una “impresa dal volto umano” – al di là di queste visioni riduttive – è un’impresa che mette al centro la persona con le sue esigenze, a partire da quelle più profonde. Non un’impresa che si limita a invadere meno gli altri aspetti della vita, ma un’impresa che punta a fare del lavoro un’esperienza di crescita e di realizzazione personale.
L’ambizione deve essere fare del lavoro un’esperienza di crescita e di realizzazione, personale e sociale, integrata in modo armonico con tutto il resto della vita. E questo deve succedere – rimanendo nel nostro mondo – nella cooperativa sociale come in quella che si occupa di finanza, in quella grande come in quella piccola. Sempre, comunque. È possibile? In che modo?
In questi anni di crisi e recessione abbiamo visto cosa rischia di accadere se l’elemento finanziario prevale su quello economico, quando la speculazione prevarica il lavoro. Oggi quando si parla di ripresa se ne misura l’intensità dal numero di anni che serviranno “a tornare come prima”, al punto in cui eravamo prima che iniziasse. Ma io vorrei essere molto più ambizioso: non vorrei tornare dove eravamo prima, vorrei andare da un’altra parte.
È una rivoluzione nel fare impresa, un cambiamento nel quale la cooperazione deve avere il coraggio di giocare un ruolo importante reinterpretando in chiave moderna e attuale i propri valori come elemento distintivo e di competizione in un mercato dove sempre più competono modelli diversi di impresa.
Questo vuol dire, ad esempio, investire sulla formazione continua delle persone. Il mondo cambia un po’ tutti i giorni e le competenze che servono oggi all’imprenditore non sono esattamente quelle che serviranno domani. Una soluzione a questo problema è stata cercata nell’iper-flessibilità: non assumo nessuno a tempo indeterminato e carico a bordo chi mi serve quando mi serve. L’altra soluzione, quella che mi interessa, quella di una “impresa dal volto umano”, è aiutare le persone a crescere un po’ ogni giorno, a evolvere. In questo modo l’impresa non cresce sulla pelle delle persone, ma insieme alle persone.
Mettere al centro le persone vuol dire dare la possibilità di mettere in campo le proprie capacità, a partire dalle donne. Le quote rose sono utili, a volte forse indispensabili. Ma l’aspetto che mi interessa di più è lavorare per liberare le energie e dare alle donne la possibilità di esprimere davvero il proprio potenziale. Quindi aiutare a conciliare vita e lavoro, innanzitutto, per non dover rinunciare all’uno o all’altro. Le nostre cooperative hanno sviluppato in questi anni tantissime esperienze diverse in questa direzione. Mettiamole in circolo, aiutiamoci a crescere.
Mettere la persona al centro vuole anche dire fare spazio ai giovani. Il vero motore dell’innovazione non sono i finanziamenti, che servono, ci mancherebbe. Il vero motore è la testa dei giovani, la loro capacità di avere uno sguardo diverso sulla realtà: occorre che diamo spazio nelle nostre aziende a chi ha qualcosa da dire e da dare, al loro potenziale. Dobbiamo investire sul futuro. E questo vuol dire favorire il ricambio generazionale, per dare responsabilità anche ai giovani. Ma vuol dire anche capitalizzare le nostre imprese per metterle in condizione di avere un futuro, non solo un presente.
Per la cooperazione si chiama intergenerazionalità: lasciare gli utili in impresa serve anche a questo. A far sì che l’impresa ci sia anche domani. E credo che sia giusto riconoscere sgravi fiscali a tutte le imprese, al di là della forma giuridica, che compiono questa scelta. La cooperazione, per legge, va anche oltre. Non solo gli utili restano in impresa, per farla crescere anche domani, ma una quota viene devoluta per far crescere le altre imprese, quelle nuove, quelle in difficoltà. È il valore della mutualità, che durante la crisi ha dimostrato la propria funzione.
Penso soprattutto ai tanti casi di workers buyout, alle 47 imprese di capitale travolte dalla crisi e ripartite dagli ex dipendenti che le hanno rilevate riunendosi in cooperativa, potendo contare sul sostegno dei nostri Fondi mutualistici, che raccolgono appunto il 3% degli utili di tutte le cooperative aderenti. È una dimostrazione di come fare rete, fare sistema e farlo attorno a valori ben precisi aiuti a liberare le energie di ciascuno, a mettersi in gioco, mobilitarsi e ripartire anche là dove era il mercato aveva posto la parola “fine”.
La cooperazione ha una propria specificità, da sempre: la democrazia in azienda. Una testa un voto. La possibilità di essere soci dell’azienda in cui si lavora e di contribuire a determinarne le scelte. In una società socialmente bloccata la cooperativa rimane uno dei pochi luoghi dove si esercita e si forma la persona a una forma di democrazia diretta e mediata, dove una persona anche di umili origini può crescere sia sul piano personale che del prestigio sociale. Una vera e propria palestra di formazione di una nuova classe dirigente su cui il Paese può contare. Lungo questa strada abbiamo fatto molto e molto abbiamo da fare.
La crescita delle dimensioni medie delle cooperative, i nuovi settori dell’economia interessati alla cooperazione e i problemi che la lunga crisi ha fatto emergere ci impongono nuove sfide. Stiamo lavorando per ridare davvero ai soci lo spazio che deve essere loro, per non omologarci, per rendere effettiva la democrazia in impresa.
Credo che sia una sfida importante, ma anche un volano fondamentale per tradurre in pratica tutto quello di cui abbiamo parlato, ogni altro valore, le scelte capaci di costruire una “impresa dal volto umano”. Tutto ciò mi porta a notare una cosa, insieme a voi: un’impresa “dal volto umano” è un’impresa più competitiva. Non si tratta di contrapporre gli interessi, ma di cercare insieme una strada per crescere insieme. Io credo che lungo queste direttrici ci sia tanto da fare. E da fare insieme.