Rimettendo il mandato da Presidente del Consiglio (e premendo per elezioni per il 20 settembre; probabilmente si svolgeranno più tardi, se non altro per motivi procedurali), Alexis Tsipras ha effettuato un doppio salto mortale: si è sganciato da quel Syriza che lo ha eletto in modo plebiscitario (e che si sta spaccando in due o anche tre soggetti politici) e si pone alla guida di un polo di sinistra moderata (peraltro ancora in formazione); ciò dopo aver risposto in do maggiore con un sonoro no alle richieste delle “istituzioni” e averle poi accettate, ingoiate, tutte quando il “suo” popolo al referendum si era opposto.



Dopo otto mesi di “tormentone greco” verrebbe la voglia di commentare: “Sono fatti suoi o al massimo loro (dei greci) poiché a noi interessa solamente che applichino le riforme e rimborsino l’Himalaya dei debiti” (una quota dei quali sono con lituani e slovacchi i cui tenori di vita sono molto più bassi della media in Grecia). Tuttavia, restare a guardare e non prendere posizione sarebbe irresponsabile per tre ordini di motivi:



1) Nonostante i sondaggi (alla persona non a soggetti politici ancora in formazione) siano favorevoli a Tsipras, non è affatto scontato che vinca le elezioni con un programma che è in effetti l’opposto di quello con cui le ha vinte il 25 gennaio 2015. Potrebbe essere sconfitto e il programma di riforme (che appena sfiora l’economia reale e non tocca il debito) subire rallentamenti e modifiche, portando di nuovo tutte le parti in causa al tavolo dei negoziati.

2) A differenza del gennaio-luglio 2015 (quando c’è stata calma piatta sui mercati internazionali), dalle mini-svalutazioni della Cina le piazze sono in subbuglio. Gli analisti finanziari differiscono sul fatto che la settimana borsistica terminata il 21 agosto sia stata la peggiore dal 2011 o dal 2012. In questo contesto, le vicende greche e le nuove elezioni – afferma Marcel Fratzcher dell’Istituto Tedesco di Ricerca Economica a Berlino – aggiungono incertezza a un quadro già denso di rischio. Occorre spiegare che in economia e finanza rischio e incertezza sono concetti molto differenti. Il primo si può stimare facendo ricorso a tecniche più o meno complesse di calcolo delle probabilità, mentre la seconda è difficilmente stimabile perché riguarda l’intero contesto economico. L’incertezza delle elezioni greche concerne sia il programma concordato con i creditori, sia la possibile aggiunta – si legga con cura il documento del Fondo monetario internazionale – di misure per l’economia reale ed il debito, sia il pericolo di contagio. Ciascuno di questi elementi ha variabili consistenti: ad esempio, il contagio è ben diverso se riguarda la Spagna o l’Italia o la minuscola Malta.



3) Il Governo Renzi fa trapelare una notevole ammirazione per Tsipras. Ha già compiuto una sterzata al centro e la stessa proposta (poi rientrata) di Partito della Nazione avrebbe trasformato il Partito Democratico in una macchina “acchiappa-voti” al di là di ideologie e visioni politiche all’insegna del “potere-per-il-potere”. Il “cerchio magico” creato dieci anni fa nei dintorni di Grosseto e ora a Palazzo Chigi, nonostante neghi di programmare elezioni prima del termine ordinario della legislatura, pensa a un doppio salto mortale alla Tsipras, nell’eventualità che l’ingarbugliata vicenda della riforma istituzionale si avviluppasse ancora di più. In caso di una vittoria di Tsipras, il Governo italiano andrebbe alle urne accusando i “conservatori” di destra e di sinistra di bloccare le riforme invocate dalla stessa Unione europea.

Quindi la mossa di Tsipras ci riguarda da vicino. C’è, però, un aspetto importante che in Italia viene ignorato. Vi ha dedicato un ampio articolo John O’Sullivan su The National Review, il settimanale intellettuale dei conservatori Usa. La soft letf (ossia il centro-sinistra) è rimasta scioccata dallo scoprire, grazie all’ampia copertura giornalistica e televisiva ricevuta dal “caso greco”, che “un’unione fiscale” (o solamente un più stretto coordinamento delle politiche di bilancio) e ancor di più una trasnfer union (un’unione che trasferisce risorse da chi lavora e produce a chi non rimuove vincoli strutturali fonte di reddito per corporazioni) implica una cessione molto forte di sovranità, schiaccia le decisioni democratiche nazionali, e tratta gli Stati debitori come dipendenze coloniali. Ci rifletta la sinistra al caviale dell’ultima spiaggia.