Il seminario organizzato a Jackson Hole ogni fine agosto dalla Fed di Kansas City tramanda probabilmente al meglio la memoria di Bretton Woods: il summit di banchieri centrali, ministri ed economisti che – fra boschi e laghi del Nord America – nel 1944 ridisegnò l’ordine monetario internazionale dopo la Seconda Guerra Mondiale. Dodici mesi fa, certamente, la due giorni sulle montagne dello Wyoming ha avuto un reale profilo world class. E’ stato lì che Mario Draghi, presidente della Bce, ha avviato la sua campagna pro quantitative easing dell’euro, condotta poi a termine lo scorso gennaio: tra mille fatiche ma con successo. E nell’agosto 2014 ad ascoltare Draghi c’era Janet Yellen, neo-presidente della Fed, a sua volta impegnata a calibrare il signalling del progressivo superamento del triplo quantitative easing del dollaro e dell’era dei tassi zero. Fin da allora la stessa Fed sembrava aver collocato un primo rialzo entro il primo semestre di quest’anno. La presenza fisica di Draghi e Yellen a Jackson Hole, in ogni caso, esprimeva di per sé un pur laborioso “ordine monetario globale”: la cui sintesi estrema sembrava essere una “staffetta” di stimoli monetari alla ripresa (realizzata negli Usa e da accelerare nell’eurozona  sullo sfondo di un rallentamento del ciclo cinese, atteso e apparentemente pilotabile nell’ambito dell'”ordine”).



Jackson Hole 2015, chiusasi ieri sera, è stata l’esatto contrario dell’edizione precedente: priva di rilievo politico-mediatico anzitutto perchè disertata dai due protagonisti dell’anno prima. La narrativa ufficiale dice che Yellen ha deciso per tempo di mantenere un opportuno riserbo nel conto alla rovescia verso il Fomc del 16-17 settembre: quello che dovrebbe decidere il primo rialzo dei tassi. Draghi, dal canto suo, avrebbe ritenuto non obbligatorio – e forse non opportuno – presenziare a un summit senza la Yellen. L’ effetto plastico è stato comunque il venir meno di qualsiasi segno di ordine. E il “gran disordine sotto il cielo” non sembra essere figlio soltanto delle ultime turbolenze alla Borsa cinese. E forse neppure dell’imprevisto luglio bollente dell’euro, scosso dall’ennesima crisi greca.



La scelta cui la Fed della Yellen è chiamata fra tre settimane scarse si prospetta molto più complessa di una semplice valutazione tecnica sulla solidità della ripresa Usa: sui decimali in più del Pil a giugno rispetto alla attese, sull’occupazione più o meno “piena” oppure sul pre-allerta inflazionistico lanciato proprio ieri a Jackson Hole dal vice della Yellen, Stanley Fischer. Sul Fomc premono invece almeno due ordini di fattori, non solo economici.

Il primo – forse più importante – è l’inizio inatteso della campagna per le presidenziali Usa del 2016. Lo scenario di una candidatura forte di Hillary Clinton alla successione democratica di Obama alla Casa Bianca sta perdendo credibilità: sia per l’inchiesta dell’Fbi sull’ex segretario di Stato, sia soprattutto per l’imprevisto boom della candidatura “antipolitica” di Donald Trump. 



Gli stessi rumor di discesa in campo dell’attuale vice di Obama, Joe Biden, non calmano i timori di una campagna elettorale “di rottura”, indipendentemente dall’esito: dodici mesi al termine dei quali l’America sarà comunque diversa da quella attuale. Cosa si muoverà, in ogni caso, una Fed “democratica” già alle prese con molti rompicapi strattemente economico-monetari? Se la candidatura Clinton avesse marciato con sicurezza è probabile che il rialzo dei tassi sarebbe stato graduale ma lineare: da manuale. Ma almeno fino alle primarie dello Iowa (e mancano ancora cinque mesi) è difficile predire se il “grillismo” di Trump rimarrà in campo, costringendo prevedibilmente tutti i candidati nei due campi ad alzare i toni a tutto campo. Mettendo quasi certamente nel mirino la Fed. 

 Il crollo dei mercati cinesi  – un crollo ben poco trasparente ma non solo per colpa dei mandarini di Pechino e Shanghai – ha avuto d’altronde l’effetto di ri-agitare lo spettro della fragilità finanziaria globale, sette anni dopo il crack Lehman. E non c’è da stupirsi se – alla vigilia di Jackson Hole – sia stato il presidente della Fed di New York (cioè di Wall Street) a parlare di “minori probabilità” per una prima stretta dei tassi a settembre. Non è difficile leggere in controluce il lobbismo delle grandi banche Usa, naturalmente poco felici di lasciare il paradiso terrestre dei tassi zero. Che la disintossicazione dei banchieri miracolati dall'”iperliquidità di stimolo” sarebbe stata problematica era del tutto prevedibile: ma il riflesso anti-stretta di Wall Street è scattato comunque e non è privo di argomenti contingenti. La Yellen – di per sé una “colomba” convinta che gli stimoli funzionino e creino reddito e occupazione – è stata nominata di un presidente che passerà alla storia per non aver per nulla “fatto ordine” a Wall Street dopo il 2008. Nell’ultimo anno del suo mandato Obama lascerà che la sua Fed contrasti i desiderata dei baroni di Lower Manhattan? O confermerà l’impressione che – sei settimane dopo lo tsunami di Wall Street – siano stati proprio quei baroni a sostenere in maniera decisiva “il primo presidente afro alla Casa Bianca”? 

 Mario Draghi, certamente, ha avuto un buon pretesto per evitare un’uscita pubblica che – a differenza dell’anno scorso – presentava più insidie che opportunità. Il Qe dell’euro è costato molto in termini politici al presidente della Bce. che ha dovuto pagare un conto salato a stretto giro. Due mesi fa ha dapprima dovuto accettare una convocazione da parte del cancelliere tedesco Angela Merkel e poi essere oggetto di un duro attacco da parte del ministro delle Finanze Schäuble, nelle ore più concitate dell’eurovertice salva-Grecia. Non è momento – in Europa – per parlare di politica monetaria. E non sembra più il momento dei super-banchieri centrali: su alcuna delle due sponde dell’Atlantico.