Matteo Renzi dice che settembre sarà il mese decisivo perché si tratta di varare la madre di tutte le riforme, cioè la riforma istituzionale. Può darsi. Ma, fuori dal Palazzo, l’impressione è che il prossimo mese sarà decisivo per un altro motivo foriero di futuri sviluppi: la riforma del mercato del lavoro. Il pasticcio sui numeri che si è ripetuto la settimana scorsa pone un problema di coordinamento tra Istat, ministero del Lavoro e Inps i quali comunicano dati diversi perché diversi sono i criteri seguiti per rilevarli (solo l’Istituto di statistica copre un campione davvero rappresentativo che non riguarda solo i contratti comunicati ufficialmente al ministero e all’ente previdenziale). Tuttavia, il problema è ben più serio.
Finora abbiamo visto un aumento dei posti di lavoro stabili (e in misura tutto sommato modesta) in seguito agli incentivi concessi dal governo. Non s’è manifestato, invece, un aumento dell’occupazione in generale. I sette anni di vacche magre hanno depauperato il capitale umano. E la politica del governo, grazie agli sconti fiscali concessi per i prossimi tre anni sui nuovi assunti, ha favorito i contratti a tempo indeterminato, riducendo il precariato. Non sono cresciuti, invece, i posti di lavoro in assoluto. Il saldo complessivo, così, è sostanzialmente zero. Come mai?
La flessibilità introdotta dal Jobs Act era inutile o addirittura sbagliata come sostengono i suoi critici di sinistra? Oppure gli incentivi al posto fisso sono arrivati troppo presto, prima che ci fosse un aumento complessivo degli occupati, spiazzando gli effetti positivi della flessibilità e trasformandosi in un boomerang? Non è facile rispondere, bisognerà attendere l’autunno e avere sotto mano i dati di un periodo più lungo e significativo. Ma qualche tentativo di interpretazione è già possibile.
Il primo, il più ovvio, è che la crescita è troppo fiacca, ben sotto un punto percentuale annuo. Per creare un saldo occupazionale positivo ci vuole almeno il doppio, secondo le stime dei macroeconomisti. Manca il rimbalzo che in genere segue la caduta, è la differenza di fondo rispetto ad altre recessioni e lo si vede dalla dinamica debole degli investimenti. È proprio questo il punto chiave. Il tasso di investimento sul reddito nazionale è sceso nei sette anni di crisi dal 21,6% al 17,8%. A cadere in modo netto sono stati gli investimenti privati (tre punti di Pil in meno) rispetto a quelli pubblici (mezzo punto di Pil). Dunque, la recessione ha colpito duro il tessuto produttivo. Ciò dimostra chiaramente che la ripresa non può avvenire attraverso l’aumento massiccio di investimenti pubblici, come sostiene la sinistra, a cominciare dalla Cgil, ma da un rilancio degli investimenti privati. Per stimolarlo, il governo ha fatto finora troppo poco.
“L’Italia ha bisogno di condizioni favorevoli all’attività di impresa, alla riallocazione dei fattori produttivi”, aveva detto all’assemblea del 2013 Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia. Nel frattempo, si è agito sul mercato del lavoro (e nel modo che abbiamo visto), non sugli altri ostacoli, cioè “un quadro regolamentare ridondante, la complessità e i costi degli adempimenti amministrativi da ridurre drasticamente, un diritto da rendere più certo, comportamenti correttivi radicati, una insufficiente protezione dalla criminalità”, per citare Visco. Il governo Renzi ha cominciato a muoversi in questa direzione, però in modo confuso e prudente. Così i vari “sblocca Italia” non hanno sbloccato a sufficienza.
Ma una responsabilità pesante ricade anche sulle imprese private chiamate “a uno sforzo eccezionale, investendo risorse proprie, aprendosi alle opportunità di crescita, adeguando la struttura societaria e i modelli organizzativi, puntando sull’innovazione” (ancora parole del governatore). Ciò riguarda soprattutto le aziende maggiori che hanno continuato un processo di dimissioni e di abbandono dell’Italia, vendendo al miglior offerente e trasformando gli utili produttivi in rendite finanziarie. Non si tratta certo di bloccare la loro internazionalizzazione, né di introdurre un protezionismo nazionalistico, però è inutile negare che in giro per il mondo si ha la netta sensazione di un’Italia in svendita. Il sindacato che rappresenta il capitale, cioè la Confindustria, che cosa ha fatto per impedirlo? Il presidente Giorgio Squinzi ha attaccato i sindacati che rappresentano il lavoro, accusandoli di ostacolare la crescita; ha ragione, però dovrebbe liberarsi anche della zavorra in casa propria.
Peggio ancora dell’industria di trasformazione, si trovano i servizi (anch’essi associati alla Confindustria) che oggi rappresentano la quota principale del prodotto lordo. Il grande gap tra l’Italia e gli altri paesi europei non è tanto nella manifattura che, anzi, è riuscita a tenere botta, ma soprattutto nello stato disastroso del terziario. Noi esportiamo prodotti più e meglio della Francia (e se ci fossero quelle condizioni favorevoli invocate da Bankitalia faremmo ancora di più), certo non sono alla stessa altezza i treni, le stazioni, gli aerei, gli aeroporti, le autostrade, la telefonia, l’energia elettrica e quant’altro.
L’Enel ha troppi debiti, deve cedere le attività estere e fornire elettricità a prezzi competitivi (oggi sono scandalosamente più alti della media europea). Anche la Finmeccanica vende, ma è difficile capire quale sarà il suo core business. L’Eni che ha puntato tutto sul gas russo è in cerca di una nuova strategia. L’Aeroporto di Roma è nelle condizioni che abbiamo visto nei mesi scorsi. Alla società Autostrade è stata concessa una scala mobile delle tariffe alla quale non corrisponde finora un adeguato tasso d’investimento. Cosa farà Telecom Italia, nelle mani di Vincent Bolloré, non lo sa nessuno, nemmeno gli azionisti di riferimento.
Il governo ha una leva fondamentale perché si tratta di attività affidate in concessione ad aziende private o a partecipazione statale molte delle quali oggi si trovano in una chiara difficoltà strategica. E qui Renzi dovrà mandare un segnale chiaro e forte. Settembre sarà un mese chiave non solo e non tanto per la riforma del Senato: ben altre riforme sono in lista d’attesa e il loro impatto sulla vita degli italiani è infinitamente più importante.