In questi giorni si sono verificate delle forti turbolenze sui mercati azionari mondiali, in particolare in quelli asiatici. La borsa di Shanghai ha perso in un solo giorno quasi il 9%, Milano quasi il 6%. Nei giorni successivi le borse europee e statunitensi hanno recuperato le perdite, che sono invece continuate nei mercati azionari asiatici, in particolare in Cina. È un timore diffuso che questa ennesima crisi azionaria possa nuovamente scatenare una depressione, una recrudescenza della crisi da cui Usa e Ue stanno lentamente riprendendosi dopo sette anni di guai.
Cerchiamo di comprendere innanzitutto cosa sta succedendo. La crisi attuale è principalmente dei mercati asiatici. La ragione è lo scoppio della bolla attualmente esistente nel mercato azionario cinese. Da tempo economisti e istituzioni economiche mondiali sottolineavano che i prezzi delle azioni delle società quotate alla Borsa di Shanghai erano cresciuti troppo. Un po’ come è successo nel 2008 e 2009 negli Stati Uniti e in Europa.
Per capire come si è formata questa bolla azionaria occorre innanzitutto sottolineare che l’economia cinese è particolare e forse noi occidentali non riusciamo a comprenderla fino in fondo. Perché la Cina è politicamente un Paese comunista, non democratico, ma economicamente è una società dove esiste la proprietà privata, dove l’economia è basata sul capitalismo. Quando pensiamo a un Paese comunista, specialmente in Occidente, immaginiamo i Paesi dell’ex blocco sovietico (Urss, Ucraina, Germania est, ecc.) in cui non esisteva la proprietà privata. In Cina abbiamo invece un sistema misto: una dittatura politica e un liberismo economico. Questo comporta che ovviamente chi ha un patrimonio a disposizione (essendoci la proprietà privata si sono diffusi sempre più individui con notevoli ricchezze a disposizione e si è anche formata un consistente classe media) sia alla ricerca del modo migliore per farlo rendere, anche investendo in azioni.
Dal momento che la popolazione cinese è immensa, soprattutto nelle città si è addensata negli ultimi decenni una quota sempre maggiore della popolazione che ha formato la classe media e che, dotata di capitale, ha iniziato a investirlo. In particolare, si è diffusa una notevole tendenza a investire soprattutto in imprese high-tech, particolarmente popolari in Cina. La conseguenza è una forte crescita dei valori delle azioni in borsa, spinte da una domanda crescente (una regola semplice dell’economia, se la domanda cresce i prezzi salgono, se l’offerta non cresce anch’essa).
La crescita è stata eccessiva, proprio come in Occidente negli anni 2000, vale a dire ben oltre il valore reale delle società quotate. Questo significa che aziende con un valore effettivo, ad esempio di 10 milioni di euro, avevano, prima delle perdite registrate negli scorsi giorni, un valore in borsa di 20 milioni di euro. La bolla scoppia perché a un certo punto gli investitori (e i cosiddetti speculatori in particolare, ossia chi opera in borsa in modo professionale e per massimizzare all’estremo i rendimenti senza tener conto delle conseguenze sociali) pensano che più di così le loro azioni non potranno salire e cominciano a vendere: così si avvia un processo rapido di vendita delle azioni, una fuga, che porta al crollo dei prezzi.
È successa la stessa cosa negli Stati Uniti e in Europa nel 2008/2009. Ora, il timore è che la bolla del mercato azionario cinese si riversi sull’economia reale, come abbiamo già visto. Quando i prezzi delle azioni scendono, il valore dei capitali diminuisce, soprattutto per la classe media, e questo porta a un calo del potere d’acquisto e quindi della domanda interna. È quello che è successo in Cina. E se succede in Cina, in un mercato emergente e di dimensioni molto vaste, mette a repentaglio l’intera economia mondiale perché molte imprese occidentali realizzano importanti fatturati in Cina e nei mercati emergenti.
Per ovviare a questa situazione la Banca Popolare cinese ha svalutato in tre volte, una decina di giorni fa, lo yuan, per un totale del 5%. L’obiettivo era quello di sostenere l’economia, quindi limitare gli effetti dello scoppio della bolla azionaria sull’economia reale, sostenendo le esportazioni. La banca centrale cinese ha cercato di bilanciare la minore domanda interna (diminuita per via della mancanza di capitali a seguito della bolla) con un incremento delle vendite all’estero. Questo ha creato tensioni a livello internazionale, perché una svalutazione competitiva altera in modo unilaterale gli equilibri sui mercati globali e di fatto probabilmente non basta a risolvere il problema della diminuzione di domanda interna. Questo ci fa capire che la crisi non sarà solo cinese, ma globale, proprio mentre il mondo occidentale sta riemergendo dalla crisi che data dal 2008.
È dunque una situazione simile a quella che abbiamo già vissuto e che ci ha insegnato comunque qualcosa. Da un lato urge un controllo sui mercati finanziari globali: non serve adottare misure contro la speculazione in Europa se lo stesso non avviene in Cina. I mercati sono globali e la risposta deve essere globale. Inoltre, è fondamentale la politica della banca centrale: infatti politiche monetarie espansive consentono di limitati gli effetti sull’economia reale e di uscire prima dalla crisi. È il Quantitative easing adottato da subito dalla Fed e nel 2015 anche dalla Bce. Si tratta di un’iniezione di massa monetaria, di liquidità insomma, che fa leva sulla domanda interna con politiche monetarie espansive e non su quella esterna su cui agisce la svalutazione. Questo consente alla banche di rispondere alla richiesta di finanziamento da parte delle imprese e delle persone, che sono invece messe alle strette prima dalla riduzione dei capitali (per effetto della crisi delle borse) e poi per la mancanza di ordine (per effetto della minore domanda interna).
Resta da capire se la banca centrale cinese lo farà e agirà in modo concertato con le principali banche centrali e istituzioni monetarie internazionali. È questa la nuova partita che stiamo giocando, quando non è ancora terminata quella relativa al salvataggio della Grecia.