Incorporando il calo di ieri, sull’insieme degli ultimi 12 mesi la Borsa greca ha accumulato una flessione del 47%, risultando uno dei mercati peggiori al mondo. A metà seduta l’indice generale della piazza si è stabilizzato intorno al -17%, ma c’è da sottolineare che, come in Cina, diversi titoli sono stati sospesi, di fatto falsando un po’ il risultato reale al netto degli eccessi di ribasso. 



A guidare il calo del listino sono stati appunto i titoli bancari, i quali devono essere ricapitalizzati con almeno 25 miliardi di euro da trovare dai proventi di un fondo per le privatizzazioni, il quale però nelle previsioni più ottimistiche garantirà al massimo 5 miliardi entro il 2017. E se non dovessero arrivare da quella via, com’è ovvio, allora toccherebbe all’Esm aprire i cordoni della borsa e sborsare il contante o in via indiretta attraverso un prestito che aumenterebbe però il debito o in modo diretto attraverso una iniezione di capitale nelle azioni delle quattro maggiori banche greche. A quel punto però sarebbe necessario applicare, secondo le regole dell’Esm, il bail-in , cioè la partecipazione alle perdite di azionisti, obbligazionisti e depositanti fino all’8% delle passività (liabilities) delle banche salvate, ma la scorsa settimana la Corte costituzionale austriaca ha ritenuto illegittimo lo stesso principio se applicato ai detentori di bond i Hypo Alpe Adria e la relativa bad bank, quindi un precedente pesante che è stato stabilito in seno all’Ue e a cui Atene potrebbe far riferimento. 



Sarebbe un gesto di fiducia importante questa seconda scelta di entrare direttamente nell’equity delle banche greche da parte dei creditori europei, ma se dovesse ridurre i depositi non garantiti sarebbe un brutto colpo per le imprese greche che sono i titolari dei 20 miliardi di euro non garantiti custoditi nei conti correnti degli istituti ellenici (complessivamente ci sono 120 miliardi di euro nei conti correnti). 

E a conferma del fatto che il caso greco è sempre più un laboratorio di dinamiche politiche più che un mero caso di crisi economica, il tonfo di Atene non ha influenzato l’andamento delle principali Borse europee, visto che gli indici del Vecchio Continente hanno avuto un lieve arretramento per poi invertire la rotta e andare in terreno positivo. Ben più moderata la correzione dei benchmark sulla curva ellenica, con il bond due anni che paga poco meno del 22% rispetto ai picchi del mese scorso in area 58%, il decennale poco sopra il 12% e il trentennale poco sotto il 9,7%. 



«La caduta della Borsa era evidentemente ampiamente prezzata. Rispetto a fine giugno la situazione greca è profondamente mutata e c’era chi scommetteva su un’emorragia ancora più pesante», ha commentato un operatore. Sintomo che un accordo è già incorporato nei prezzi delle obbligazioni sovrane, mentre i titoli, soprattutto bancari, sono preda della speculazione pura, essendo molti hedge funds Usa di fatto azionisti privilegiati di quelle banche sulla cui pelle ora si cercano profitti a breve. 

Attenzione però, perché ora si rischia davvero di innescare qualcosa di molto pericoloso ad Atene, visto che in contemporanea con il dato dei mercati finanziari, ieri è arrivata anche la lettura dell’attività del comparto manifatturiero in Grecia a luglio, crollato a tal punto da aver toccato i minimi da 16 anni. L’indice Pmi elaborato da Markit è sceso a 30,2 punti, ai minimi dall’inizio delle serie storiche, rimanendo ben al di sotto la soglia dei 50 punti che separa la crescita dalla contrazione. E il primo grafico a fondo pagina mi pare che spieghi bene la dinamica con cui abbiamo a che fare. Parliamo di 11 mesi di fila di contrazione e con i nuovi ordinativi letteralmente sfracellatisi da 43.2 a 17.9, un’economia morta, un Paese in ginocchio. 

Colpa della troika? No, colpa di Tsipras e delle sue ricette da ospedale psichiatrico, visto che lo scorso anno i dati macro ellenici stavano migliorando e, addirittura, aveva fatto capolino un avanzo primario, ora magicamente tramutatosi in deficit. E a rendere ancora più preoccupante la situazione è che, a fronte dei prezzi delle materie prime crollati ai minimi storici a livello globale per la fine del super-ciclo di mal-investment, in Grecia le aziende non riescono ad approvvigionarsi di quanto serve loro per produrre, una totale assenza di liquidità che sta uccidendo giorno dopo giorno l’economia reale. 

Tutti i dati sono negativi, dalla produzione ai nuovi ordinativi all’occupazione: è un’ecatombe. Da sette mesi di fila la produzione di beni di consumo è in netta contrazione e il calo delle nuove attività in ambito manifatturiero ha spazzato via il precedente record negativo del febbraio 2012, con gli ordinativi per l’export ormai ai minimi storici. E anche se la manifattura rappresenta solo una parte limitata dell’economia ellenica e della produzione totale, la magnitudo del crollo rimanda un segnale decisamente preoccupante per lo stato di salute generale: sembra una barzelletta, ma in strati sempre più ampi dell’economia ellenica sta tornando in voga il baratto, quale unica forma di perpetuazione del commercio a fronte di un sistema bancario congelato e cronica assenza di capitale. 

Ora però guardate gli ultimi due grafici, visto che ieri non soltanto la Grecia ha visto pubblicato dati macro di grande importanza ma anche la Cina, il cui indice Pmi manifatturiero è collassato a 47.8, il dato più basso dal luglio 2013 e in territorio di contrazione sotto quota 50. Attenti, perché la Cina non è la Grecia, fino a tre anni fa era il driver pressoché unico del refolo di ripresa mondiale post-2008: se grippa, con tre bolle in continua espansione (credito, real estate e azionario), ci ritroveremo dritti dritti in una nuova recessione. Oltretutto, senza un Paese in crescita abbastanza grande e forte da garantire un minimo di offsetting. 

 

 

 

Inoltre, Goldman Sachs ritiene che nel solo secondo trimestre di quest’anno gli outflows di capitale abbiano toccato i 224 miliardi di dollari, «un livello superiore a qualsiasi cosa vista storicamente». Di più, stando a calcoli di Lombard Street Research, gli outflows di capitali dalla Cina lo scorso anno avrebbero toccato gli 800 miliardi di dollari. Un diluvio. Ma c’è dell’altro, visto che i calcoli della Cpb sul World Trade Index ci fanno desumere che il volume di spedizioni via mare a maggio si sia contratto dell’1,2% e sia stato negativo per quattro degli ultimi cinque mesi, un qualcosa di molto raro se non all’interno di un ciclo di recessione ufficiale (lo dice la Wolrd Bank, non il sottoscritto) e quasi totalmente ascrivibile al rallentamento dell’economia cinese. Ma il dato del Pil cinese comunicato pochi giorni fa parlava di un 7% di crescita tonda tonda, come si fa a parlare di rallentamento? 

Dipende come si calcola il Pil. Ad esempio Capital Economics pubblica ogni mese il “China Activity Proxy”, un misuratore del Pil che si basa su dati come produzione energetica, spazi in costruzione, volumi dei cargo, spostamenti dei passeggeri e treni merci. Bene, in base a questa misurazione l’attuale tasso di crescita di Pechino è al di sotto del 5%. Insomma, al netto del mercato azionario, c’è il rischio che la Cina si tramuti da locomotiva mondiale a dinamo di una nuova recessione globale. Complimenti alle Banche centrali, hanno davvero dato vita a un capolavoro. 

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