Da decreto enti locali a una vera e propria manovra correttiva, sia di tipo finanziario, sia alle disposizioni della fin qui fallimentare riforma delle province. La legge di conversione del d.l. 78/2015 ha sostanzialmente stravolto le finalità iniziali del decreto, pensato e adottato allo scopo di apportare alcuni correttivi alle storture della riforma delle province e alla situazione molto traballante della finanza locale.



La legge di conversione si è, invece, arricchita di disposizioni normative, molte delle quali non hanno nulla a che vedere con l’ordinamento degli enti locali. Si pensi alla norma-tampone per i dirigenti delle Agenzie fiscali, cioè la previsione di un concorso da svolgere entro il 31/12/2016, connotato da due ben strane caratteristiche: la previsione della riserva di posti, che va in rotta di collisione con le disposizioni generali sull’accesso alla dirigenza le quali prevedono solo concorsi interamente aperti al pubblico, nonché la rinuncia alla possibilità di ricollocare i dirigenti amministrativi proprio delle province, scartati a priori da un processo di mobilità verso le Agenzie, che avrebbe potuto coprire subito e senza nuovi costi gran parte dei posti vacanti.



La legge di conversione ha poi avviato in parte il piano di spending review con un capitolo molto vasto dedicato al Servizio sanitario nazionale e l’introduzione di una serie di misure volte al contenimento della spesa, per la somma di 2,3 miliardi. Rilevano in particolare le disposizioni volte a obbligare gli enti del Ssn ad acquisire le forniture e i servizi dalle centrali di acquisto e le misure per ridurre il ricorso a esami diagnostici sovrabbondanti, specificamente quelli finalizzati a coprirsi da eventuali responsabilità civili.

Sempre natura di norme correttive di finanza pubblica “omnibus” hanno le disposizioni “salva Sicilia”, un lauto contributo di 500 milioni per risarcire in parte (200 milioni) mancate entrate Irpef, ma, soprattutto, aiutare la regione a scongiurare il default. O lo stanziamento di 3 miliardi per provare ancora una volta a sbloccare i pagamenti di regioni ed enti locali.



La parte relativa specificamente agli enti locali è, comunque, rimasta corposa. Dal lato dei comuni, si è confermato anche per il 2015 un finanziamento di 530 milioni da parte dello Stato per compensare mancati introiti da Imu e Tasi, anche se mancano circa 70 milioni rispetto al medesimo trasferimento stabilito lo scorso anno; vi è, poi, la proroga al 30 ottobre del pagamento dell’Imu agricola.

In quanto agli interventi sulle province, la legge di conversione del decreto enti locali appare oggettivamente un ripensamento tardivo di poche tra le più dannose conseguenze della riforma. Spicca, tra tutte, la disposizione che consente a province e città metropolitane di approvare il bilancio di previsione (a settembre: un bilancio per tre mesi di esercizio residui…) per il solo anno 2015. Un’inusitata esenzione dalla formulazione di una programmazione finanziaria e gestionale di durata triennale, che conferma senza più ombra di dubbio un fatto già evidente da molto tempo: i conti della manovra finanziaria sulle province disposta con la legge di stabilità 2015 sono sbagliati. La legge 190/2015 ha previsto un prelievo forzoso di 1 miliardo nel 2015, 2 nel 2016 e 3 nel 2017, che aggiunto ad altri 2,7 miliardi di tagli di precedenti manovre e a circa 1 miliardo di minori trasferimenti delle regioni, abbassa la capacità di spesa delle province a circa 3 miliardi a regime, a fronte di un fabbisogno di 9-10 miliardi.

La legge di conversione certifica implicitamente che per gli anni 2016 e 2017 (ma in realtà la stessa cosa vale nel 2015, come ha indicato a più riprese la Corte dei conti) gli equilibri finanziari non reggono e le province potrebbero essere destinate tutte al dissesto. La norma, ovviamente, prelude a ulteriori interventi probabilmente contenuti nella Legge di stabilità per il 2016, nella quale saranno verosimilmente inseriti ulteriori correttivi al caos scatenato dalla legge 190/2015.

Proprio per dare una scossa al processo di attuazione della riforma delle province, fin qui sostanzialmente rimasto bloccato, la legge di conversione del decreto enti locali coinvolge in maniera piena le regioni. Il legislatore nazionale, in poche parole, vuole “stanare” le regioni e costringerle ad adottare entro il 31 ottobre 2015 le leggi regionali per riordinare le funzioni provinciali non fondamentali, in modo da assorbirle o assegnarle ai comuni e, così, “alleggerire” le spese di province e città metropolitane.

Le regioni fin qui hanno fatto melina, guardandosi bene dall’approvare le leggi di riordino, perché avevano perfettamente capito che parte del buco di bilancio creato al sistema degli enti di area vasta dalle norme della legge 190/2014 avrebbe dovuto essere coperto con risorse regionali. La legge di conversione per imporre alle regioni di fare il grande passo e finalmente riordinare le funzioni provinciali accollandosi la necessaria spesa, le mette con le spalle al muro (in modo, forse, non del tutto rispettoso della Costituzione): se, infatti, alla data del 31 ottobre 2015 le regioni non avranno riordinato le funzioni, dovranno rifondere, entro il 30 novembre 2015 ed entro il 30 aprile di ogni anno successivo, alle province e alle città metropolitane le spese che avranno continuato a sostenere per le funzioni non fondamentali. E sarà lo Stato a stabilire con proprio decreto quanto le regioni dovranno versare agli enti di area vasta, a sottolineare lo scopo sostanzialmente sanzionatorio della disposizione.

C’è, poi, il capitolo dedicato alle assunzioni nei comuni, congelate dalla legge 190/2014, allo scopo di agevolare la mobilità di 20000 dipendenti provinciali circa in sovrannumero. Il blocco delle assunzioni imposto dalla Legge di stabilità 2015 si è rivelato eccessivamente esteso, perché ha coinvolto tutte le figure professionali, anche quelle del tutto assenti o scarsamente presenti negli enti di area vasta. La legge di conversione sblocca per i comuni la possibilità di assumere liberamente personale in possesso di titoli di studio abilitanti o di abilitazioni professionali necessarie nell’ambito dei servizi educativi e scolastici, dopo aver esaurito eventuali graduatorie vigenti e verificato l’assenza di tali figure professionali presso le province. In questo modo potranno essere assunti educatori e docenti di scuole materne e asili nido.

La legge di conversione rimedia, poi, a una clamorosa svista dello stesso d.l. 78/2015, che allo scopo di favorire (anzi di obbligare) il trasferimento degli agenti di polizia provinciale verso i corpi di polizia comunale, aveva vietato di effettuare assunzioni di vigili a qualsiasi titolo, impedendo anche di reclutare i vigili stagionali. Le modifiche apportate all’articolo 5 del d.l. 78/2015 permettono, ora, ai comuni di espletare i concorsi per gli stagionali e sanano anche le assunzioni di stagionali eventualmente effettuate in violazione delle disposizioni del decreto.

Resta, tuttavia ancora aperto il problema del reperimento di figure professionali estremamente importanti per i comuni, come gli assistenti sociali, anche se la deliberazione 19/2015 della Sezione Autonomie della Corte dei conti sembra ammetterla. Sempre la Sezione Autonomie, con la delibera 26/2015 (oggettivamente di legittimità molto dubbia) è intervenuta sul d.l. 78/2015, concedendo ai comuni la possibilità di allargare ulteriormente le possibilità di assumere autonomamente al di fuori del blocco imposto dalla legge 190/2014, utilizzando i resti delle risorse da destinare ad assunzioni non utilizzati per qualsiasi causa negli anni 2011-2013.

La disposizione che prevede un finanziamento di 180 milioni in due anni da parte dello Stato per i Centri per l’impiego delle province, infine, perde di rilievo dopo la stipulazione dell’intesa tra Stato e regioni dello scorso 30 luglio, con la quale si stabilisce che nel periodo transitorio da qui alla riforma della Costituzione, le regioni acquisiranno i servizi per il lavoro e i Centri per l’impiego quali proprie articolazioni territoriali e concorreranno almeno fino al 31 dicembre 2016 alla spesa per il personale addetto con contratti a tempo indeterminato (circa 250 milioni l’anno) per un terzo, mentre i restanti due terzi saranno a carico dello Stato.

Resta, comunque, fortissima l’impressione che la conversione del decreto enti locali sarà solo uno di tantissimi altri correttivi a una serie di discipline – la finanza pubblica locale, la riforma delle province, la spending review – destinate a continui stop and go, modifiche, revisioni, in un quadro convulso e poco coordinato.