“Il trimestre è andato oltre le nostre aspettative, già ottimistiche. Ovunque c’è il segno più: crescono i consumi dei prodotti raffinati, crescono gli stoccaggi e i margini di raffinazione”. Giovanni Barberis, direttore finanziario di D’Amico shipping, una delle flotte leader nel trasporto del greggio, ha spiegato così la stagione dei record della multinazionale tascabile di casa nostra. “Ormai il trend si è consolidato – spiega Barberis – la gente torna a usare l’auto. E così cresce la richiesta di navi cisterna anche perché nel frattempo ha preso corpo il trend di allontanamento dei luoghi di raffinazione da quelli di consumo, di cui abbiamo parlato negli ultimi anni”.
La crisi, vista dal mare, sembra alle spalle. Anche perché, dopo il raddoppio di Panama e del Canale di Suez, si apre una stagione di investimenti per navi più larghe, al servizio di vecchie e nuove rotte delle materie prime. Non a caso i fondi avvoltoio Usa stanno facendo rotta sui debiti degli armatori italiani, che (con l’eccezione di D’Amico e Grimaldi) hanno accumulato oltre 7 miliardi di debiti verso Intesa e Unicredit.
Ma i banchieri di casa nostra, su cui gravano a livello di sistema oltre 320 miliardi di sofferenze, non fremono dalla voglia di cedere questi prestiti con lo sconto: l’economia dà forti segnali di ripresa, come dimostrano i risultati trimestrali dei due grandi istituti italiani. Non solo migliorano gli utili, ma una fetta di clientela che sembrava destinata a un declino inarrestabile sta mostrando segnali di risveglio. Nel primo trimestre del 2015, sottolinea l’ad di Banca Intesa Carlo Messina, sono rientrate in bonis verso l’istituto 8.500 aziende, ovvero 17.500 negli ultimi 18 mesi. Intanto, grazie alla cura Draghi, si riaprono le porte del credito alle aziende ma anche ai mutui.
Sono questi due tra i tanti segnali positivi che stanno caratterizzando la stagione delle trimestrali di Piazza Affari, da cui emerge una ripresa del sistema che si sta trasmettendo anche alla periferia. L’Italia che esporta ha raggiunto traguardi impensabili. Dal rapporto R&S Mediobanca emerge che la manifattura targata made in Italy ha sfondato nel Nord America, dove le vendite sono aumentate nel 2014 del 10,4%, e nel Far East (+6%). In questa cornice s’inquadra il balzo in avanti di Fiat Chrysler, in forte crescita sia in Nord America che in Europa grazie all’ottima domanda per i Suv di Jeep ma anche ai prodotti marchiati Fiat. Il boom favorito dal dollaro forte ha dato una spinta robusta all’andamento dell’industria manifatturiera, con un balzo della componentistica italiana del 44%.
Insomma, la corporate Italia sembra in grado di rialzare la testa dopo sette anni tremendi. Certo, ci vorrà tempo perché il fenomeno possa tradursi in un aumento dell’occupazione. O forse, tanto per essere pessimisti, il recupero dei posti di lavoro sarà addirittura più lento di quanto segnalato dal Fmi, per cui ci vorranno vent’anni per recuperare i livelli del 2007. Nel corso di questi anni, del resto, la crisi ha obbligato il capitalismo italiano a compiere un robusto e radicale cambio delle sue strutture produttive. Ogni 100 euro di ricavi dell’industria manifatturiera nel 2014, si legge nel rapporto R&S, 34 derivano da produzione domestica (24 esportati e 10 consumati in Italia), i restanti 66 sono prodotti e venduti all’estero, senza impatto su investimenti e occupazione nel Bel Paese.
In parte è un fenomeno fisiologico, necessario per inseguire la domanda sui mercati. Ma è anche uno degli effetti della crisi demografica di casa nostra, che tanto incide anche sulla crescita dei consumi e di riflesso del Pil, e che non è possibile contrastare senza una politica della famiglia e un approccio all’immigrazione, grande risorsa più che problema, profondamente diversa e innovatrice. Oltre a essere uno dei costi delle mancate riforme, dalla giustizia alla Pubblica amministrazione, che rendono così difficile scegliere l’Italia come base produttiva.
Al di là dei nodi strutturali già denunciati in mille occasioni va comunque sottolineato un fatto nuovo: la crisi, come si è spinto a dire Carlo Messina, è finita. Dal disastro degli ultimi sette anni che è costato all’Italia circa un quarto della capacità produttiva (poco meno del 43-45%, quando venne danneggiato il 35-40% della nostra struttura industriale) si riemerge con molte macerie, sia fisiche che virtuali: i capannoni dismessi da Biella al Nord- Est non verranno occupati mai più da telai o torni, ma faranno da sede per ipermercati o outlet. Oppure, com’è accaduto nelle vecchie capitali industriali d’America, serviranno a ospitare le officine dei makers alle prese con piccole produzioni in 3-D. Molte aziende, nel frattempo, hanno cambiato casacca, come è accaduto, ultimo esempio, ad Italcementi acquisita da Heidelberg Cements. Ma molte altre potrebbero nascere, in un ambiente più propizio. È l’opinione di Mediobanca, che ha deciso di tenersi strette le azioni di Italmobiliare, orfana della presenza storica nel cemento, “perché potrebbe essere profittevole partecipare alle nuove imprese del gruppo Pesenti”.
È una situazione nuova che richiede risposte nuove: più concorrenza, più risorse sottratte alle lobbies grandi e piccole e alle corporazioni, meno pressione fiscale sia sui privati che sulle imprese. La caduta dei prezzi petroliferi e degli oneri del debito pubblico, assieme al miglioramento dello stato di salute di banche e imprese, offre un’occasione storica per uscire una volta per tutte dal tunnel. Non perdiamola.