Le notizie che escono dalle semestrali delle due principali banche italiane hanno dato allegria e voce ai banchieri, che si sono presentati finalmente in pubblico con numeri con il segno più e con la voglia di annunciare la fine della crisi. Sul fronte opposto, quello degli imprenditori, non poche perplessità non soltanto per i dati poco positivi sulla produzione industriale (-1,1% su maggio) e sulla stasi degli investimenti, ma anche in relazione all’ottimismo verso il ritorno del credito. Cosa c’è dietro le notizie e a questo atteggiamento così diverso? Pochi punti da analizzare con oggettività.



Profitti ma senza crescita Sul fronte banche le due semestrali di Unicredit e Intesa SanPaolo dicono che cresce l’utile netto ma non altrettanto i ricavi. Per Intesa i ricavi caratteristici – depurati dal trading – crescono del 3%, grazie a un altro balzo notevole delle commissioni, mentre per Unicredit sono scesi dell’1,3%. Invece decolla l’utile netto da 700 milioni a 2 miliardi per Intesa (+178%) e flette da 1,116 a 1,034 miliardi (-7%) per Unicredit, grazie a due soli fattori positivi: il calo delle rettifiche su crediti (per Intesa) e delle imposte per entrambe. 



La grande banca non cresce o cresce pochissimo, ma dopo 7 anni di crescita vertiginosa delle sofferenze ha fermato l’emorragia (deve vendere quelle vecchie però) e ha ricevuto benefici fiscali molto importanti. In assoluto sono risultati che non parlano bene per il futuro delle banche, ma temporaneamente possono fare contenti la Borsa e gli azionisti depressi da diverse stagioni di perdite.

Il credito all’economia langue. A prescindere dalle dichiarazioni dei rispettivi Ceo, gli impieghi alla clientela sono cresciuti di un misero 1,6% per Intesa e calati dello 0,2% per Unicredit. C’è stato di mezzo il calo dei tassi, la pioggia di liquidità del Qe di Draghi, ma i finanziamenti non sono ancora rimbalzati. Eppure l’Abi canta vittoria e annuncia che i finanziamenti alle imprese sono cresciuti del 16% nei primi sei mesi dell’anno. Dove sta il trucco? 



È un po’ come il gioco delle tre carte, usando con abilità le percentuali. I finanziamenti alle imprese, ad esempio, sono scesi nel 2014 da 837 miliardi a 808 (-4%). La differenza è sempre l’effetto netto tra i flussi di rimborsi e di nuove erogazioni, sulle quali non esistono dati facilmente reperibili. Ipotizziamo che vi siano stati nel 2014 150 miliardi di erogazioni e 179 di rimborsi e riduzioni per fare -29 miliardi di differenza. Se nel 2015 vi fossero stati nel primo semestre 90 miliardi di erogazioni e 90 miliardi di riduzioni (pari a metà del 2014), il credito totale non sarebbe cresciuto. In effetti i dati ufficiali indicano un calo sino a maggio da 808 a 803 miliardi, ma l’Abi potrebbe dire – come ha fatto l’altro giorno – che le nuove erogazioni sono cresciute in sei mesi (nell’esempio da 75 a 90 miliardi, pari al 20%). Purtroppo non è dato sapere i rimborsi, ma se il credito totale non è cresciuto è facile arrivarci… I numeri sono utilizzabili a piacere e le imprese non capiscono il trucco.

La felicità delle banche è dovuta ai cambiamenti delle leggi. Buona parte dell’ottimismo delle banche non è veramente legata alla ripresa che si mostra malaticcia e instabile, ma all’importante aiuto ricevuto dal governo che, con un paio di veloci riforme e voti di fiducia, ha di colpo rivalutato il “pacco” delle sofferenze. In che modo? Approvando procedure più rapide per aggredire i debitori morosi, accelerando la svalutazione dei crediti a perdere e facilitando l’aggressione da parte del creditore alle garanzie ipotecarie anche sulle prime case per ottenere la proprietà velocemente e rivenderle a terzi. Tutte misure che hanno un effetto importante sul prezzo di vendita di quei 180 miliardi di sofferenze che piacciono ai fondi americani, ma a prezzi assai diversi da quelli di carico in bilancio. Le riforme permettono di alzare il prezzo di vendita e avvicinarlo al valore di bilancio e questo conta moltissimo per le banche. 

Le banche medie e le piccole Bcc sono invece inguaiate con un difficile processo di possibili fusioni e integrazioni, spinto dalla riforma delle popolari e voluto fortemente dalla Bce. Qualcuna in Veneto ha dovuto mettere sogni di grandezza nel cassetto e dovrà affrontare la dura prova della quotazione in Borsa deludendo i vecchi azionisti. Tutte categorie di banche oggi un po’ distratte e a rischio vero di allontanarsi dai piccoli clienti che hanno sempre detto di volere sostenere.

Imprenditori perplessi. In tutto questo gli imprenditori hanno capito poco e visto pochi benefici. È vero i tassi sono scesi, ma solo per le imprese di media e grande dimensione. Sono parecchie le banche che hanno messo nel mirino le piccole imprese, perché con i loro bilanci indeboliti e indebitati sono i peggiori consumatori di capitale di vigilanza e hanno causato una fetta delle sofferenze. Per queste categorie non c’è credito, né flessibilità. Ha capito tutto il Grande Saggio Puffo dei piccoli imprenditori artigiani che due giorni fa ha tirato la sirena a difesa del suo popolo “Le dichiarazioni di ottimismo delle banche italiane – ha detto Giorgio Merletti, Presidente di Confartigianato – si scontrano con la realtà vissuta dagli imprenditori. Noi, il rilancio dei prestiti alle imprese non lo vediamo ancora. Soprattutto per gli artigiani e le piccole imprese il denaro rimane più scarso e più costoso rispetto a quello erogato alle aziende medio-grandi e in confronto a quanto avviene nella media europea”. 

La verità sul rapporto tra banche e piccole imprese è scomoda e quindi viene troppo spesso nascosta. Peccato, la sincerità aiuterebbe a cambiare più velocemente molte cose, da un lato e dall’altro.