Fino a che gente come me è costretta a difendere con le unghie e con i denti le sue convinzioni, zigzagando tra accuse di complottismo e pessimismo cosmico, vuol dire che c’è ancora speranza. Quando invece sono le cosiddette fonti ufficiali a confermare che c’è qualcosa che non va, allora vuol dire che la situazione sta pesantemente degenerando. Che dire della Banca Mondiale che chiede esplicitamente alla Fed di non alzare i tassi a settembre, altrimenti i mercati andrebbero incontro a turbolenze dagli esiti poco prevedibili? Non era la stessa Banca mondiale che fino a poco tempo fa benediceva la ripresa economica degli Usa? E come mai adesso ha tanto paura dell’aumento di un misero quarto di punto? Forse allora quella ripresa l’avevano vista solo attraverso i dati taroccati del governo, non guardando giorno dopo giorno quelli dell’economia reale?



Ma peggio ancora è quanto accaduto ieri, ovvero il fatto che una banca d’affari come Citigroup abbia certificato con un report quanto vi dico da mesi: cioè che il boom dello shale oil statunitense è stato interamente finanziato da Wall Street grazie ai soldi facili della Fed e, quindi, vista la natura di mal-investment che lo contraddistingue, se le dinamiche dei prezzi troppo bassi non cambiano e in fretta, per produttori e loro creditori si palesano tempi davvero duri. Le aziende del comparto, infatti, si sono dimostrate bulimiche di capitale per finanziare le loro esplorazioni intensive e hanno dato vita a un mix pericoloso di prestiti ed emissioni obbligazionarie ad alto rendimento, la cui interconnessione ora è sotto i riflettori degli analisti visto che il credit crunch per le aziende comincia a palesarsi in maniera chiara e il mese prossimo moltissime banche e finanziarie Usa daranno vita alla revisione bi-annuale delle linee di credito.



Ma lo stress finanziario che sta attanagliando il settore, oggi ha portato alla luce il segreto poco edificante su cui si è basata la sua fortuna: le aziende dello shale hanno speso più di quanto incassato come cash-flow e quindi dipendono interamente da iniezioni di capitale sul mercato per proseguire la loro attività, come ci mostra il grafico:

E qui torna protagonista quanto vi ho appena detto, ovvero la revisione delle linee di credito, denominata in gergo “Redetermination of the borrowing base”, la quale avviene ogni anno ad aprile e ottobre. La logica è basica: per ottenere finanziamento, i produttori devono postare del collaterale a garanzia di quel prestito ma con il prezzo del petrolio sempre sui minimi e i margini di guadagno ridotti all’osso, le garanzie legate all’attività non hanno più il valore che avevano lo scorso anno o anche soltanto durante la revisione di aprile, quando si sperava nel rimbalzo estivo.



Detto fatto, da calcoli di Citigroup ci dobbiamo aspettare una riduzione tra il 5% e il 15% delle linee di credito concesse: un dramma per molti produttori ma, da un punto di vista meramente di ciclo economico, forse la pietra miliare. Già, perché con i bilanci al limite e le necessità di finanziamento sempre più stringenti ma sempre più a caro prezzo sul mercato, i produttori dovranno o trovare metodi alternativi per ottenere credito oppure fondersi tra loro. In ultima istanza, chiudere. Insomma, una versione petrolifera della “distruzione creativa” schumpeteriana, lo shake-up che serve per rompere un’impasse generata proprio dal denaro a basso costo ottenuto finora per un’unica ragione, ovvero le ratio di utile per azione delle aziende petrolifere, ancora oggi in area 23x, qualcosa di fuori dal mondo in un contesto di saturazione globale del mercato da eccesso di offerta. Ma c’è un rischio. Ovvero che a prevalere sia la logica meramente finanziaria legata al settore del petrolio, visto che i mercati di capitale hanno diritto di vita e di morte sui produttori, decidendo loro chi finanziare e chi lasciare al suo destino ma possono ancora decidere di prolungare l’agonia di alcuni, vista la struttura corporate del comparto che prevede degli incentivi a dir poco perversi, se visti attraverso la lente di ingrandimento del libero mercato e del merito. L’utilizzo di certe leve finanziarie, infatti, potrebbe rallentare e di molto la razionalizzazione dell’offerta da parte di certi produttori, dando vita al più classico dei casi di risk-shifting.

E’ molto semplice, le aziende shale hanno campato per anni sull’emissione di debito ad alto rischio e alto rendimento ma, soprattutto, con bassa protezione, i cosiddetti covenants, per chi detiene quella carta. Si chiama debito “cov-lite” e spesso e volentieri diventa una minaccia mortale per il creditore, visto che i produttori tendono a cercare di stare a galla anche a dispetto della profittabilità del loro business, riducendo all’osso i margini ma alzando ai massimi i rischi. La logica è chiara: i produttori sono spesso tentati di produrre anche sotto i prezzi di break-even fino a quando hanno flussi di liquidità disponibile per la semplice ragione che produrre ha valore in sé, è un’opzione reale per gli assets aziendali. In questo modo, però, si sposta appunto il rischio sul creditore, il quale se detiene – come spesso accade nel settore shale – il cosiddetto “alto rendimento non assicurato” ha pochissimi mezzi per reagire a questi incentivi del produttore e resta con il cerino in mano.

Il problema sta tutto in questo altro grafico:

Ovvero il fatto che il costo di capitale dello shale crescerà comunque e di molto, visto che se anche si troverà il mondo di pagare interessi e cedole, magari fino al 7%, ai creditori, l’aggravio per chi produce stando a calcoli di Citigroup arriverà quasi al 15%, spostando al rialzo i prezzi di break-even aziendali tra i 5 e i 15 dollari al barile. Quindi, se anche attraverso incentivi e magheggi molti produttori riusciranno o a restare i sella o, in ultima istanza, i più deboli verranno eliminati dal mercato garantendo al comparto la possibilità di ripartire più forte, sicuramente i detentori di obbligazioni opereranno un re-price del rischio legato al settore petrolifero e non si esporranno nella maniera in cui lo hanno fatto nella prima fase di sviluppo del boom dello shale. Questo renderà ancora più oneroso finanziarsi per le aziende, visto che o alzeranno ulteriormente i rendimenti che sono disposti a pagare per i loro bond, già altissimi o dovranno svenarsi di collaterale per riuscire a ottenere linee di credito. Insomma, o il prezzo del petrolio sale – e anche abbastanza in fretta – o questa storia potrebbe finire male per molti.

Lo certifica Citigroup, non il sottoscritto. Ma c’è dell’altro, visto che ieri l’indice Nikkei ha chiuso in rialzo del 7,7%, dopo il -2,4% di lunedì e il pessimo dato sul Pil del secondo trimestre: come mai? Semplice, per la ragione che vi dico da mesi: sta per partire il grande QE globale, visto che la Cina ha chiesto aiuto agli Usa per stabilizzare i mercati, il Giappone si è detto pronto a tagliare col machete la tassazione sulle imprese e la stessa Pechino ha annunciato l’aumento delle spese per infrastrutture e una riforma fiscale e finanziaria molto rapida per snellire e aprire il sistema. Insomma, al netto del fatto che la Fed tra una settimana non alzerà i tassi, sono tante belle iniziative che si possono riassumere in un solo modo: più spesa pubblica, più denaro facile, più debito per cercare di stabilizzare una situazione fuori controllo proprio per l’eccesso di debito. Ve lo dico da sempre, ora lo ammettono tutti: ieri i mercati sono saliti in cielo perché gli investitori sentono profumo di nuovo stimolo.

Ma non ho ancora concluso, perché nonostante io non faccia parte del partito del “E’ tutta colpa della Germania, a prescindere”, il fatto che i tedeschi accumulino surplus commerciali spaventosi, a discapito degli altri Stati membri, senza stimolare i consumi interni, lo denuncio da sempre come un argomento che un primo ministro italiano serio – quindi non sto parlando di Matteo Renzi – dovrebbe porre con forza ai tavoli di Bruxelles. Bene, ieri lo ha detto chiaramente anche Bloomberg, dopo che Berlino ha pubblicato i dati relativi al commercio: insomma, a dispetto delle accuse rigoriste di Wolfgang Schaeuble contro il QE e il monetarismo di Mario Draghi, dai produttori tedeschi si è levato un tonante “grazie” alla Bce per l’euro debole garantito dagli acquisti a pioggia.

A luglio il surplus commerciale tedesco è infatti salito ai record assoluto di 25 miliardi di euro, battendo il precedente massimo registrato a giugno con 24,1 miliardi di euro, come ci mostra questo grafico:

Mentre quest’altro grafico:

Ci dice che proprio la valuta comune bassa ha fatto aumentare la domanda al di fuori dell’area euro, visto che le vendite tedesche verso Paesi dell’Unione ma che non adottano l’euro sono salite dell’8,3% su base annua e le spedizioni verso nazione non-Ue sono cresciute del 7,9%, mentre l’export all’interno dell’eurozona è cresciuto solo del 4,8%. Casualmente, da inizio anno l’euro è calato del 7% sul dollaro, del 6% contro la sterlina e del 5% anche contro lo yuan, nonostante la svalutazione. E la Germania gode, tanto di queste cose non parla nessuno, sono tutti troppo impegnati a dire quanto è diventata buona la Merkel ad accogliere i profughi. Certo, tutti siriani, in età da lavoro, con buona preparazione professionale o istruzione superiore, perfetta manovalanza high-skilled a basso costo per perpetuare la macchina da surplus alla faccia nostra. Questo è un motivo per cui andare a sbattere i pugni sul tavolo, non perché Berlino non vuole più che la Grecia campi con soldi nostri e debiti allegri.

E attenzione, perché nel silenzio generale rotto solo dal Wall Street Journal, scopriamo che le società statunitensi hanno dominato il mercato delle emissioni corporate in euro negli ultimi mesi, un trend che banche e investitori ritengono possa continuare a un ritmo sostenuto per il resto del 2015. Ultimi in ordine di tempo Wells Fargo e Honda Finance che la scorsa settimana hanno emesso bond in euro, raccogliendo complessivamente più di 2 miliardi di euro e andando ad accrescere la lunga lista di imprese finanziarie Usa che hanno diversificato la propria base di finanziamento puntando sui rendimenti europei vicini allo zero e comunque più bassi di quelli in dollari.

Ma anche le aziende industriali americane hanno deciso di indebitarsi in euro: secondo Dealogic, nella prima metà del 2015 hanno raccolto quasi 54 miliardi di euro nei mercati obbligazionari del vecchio continente, un nuovo record annuale che rappresenta il 40% in più rispetto a quanto raggiunto nell’arco di tutto il 2014. Nel 2015 le società statunitensi hanno collocato più del 22% del totale delle emissioni di corporate bond nominati in euro, più dei player francesi e italiani messi insieme: numeri che rendono gli Stati Uniti il maggiore emittente dei mercati corporate bond dell’eurozona mentre nel 2014 erano terzi a larga distanza dalle società francesi che avevano emesso quasi il doppio dei titoli. Direte voi, qual è il problema? Presto detto, se le società Usa continueranno a inondare il mercato di carta in euro, anche il mercato del Vecchio continente rischia di saturarsi in fretta. E allora ti saluto QE. AAA, cercasi un governo. Urgentemente o dovrò veramente fare ciò che mai avrei pensato: rimpiangere Giulio Tremonti.