Luglio è stato un mese fortunato per l’economia. I consumi sono ripresi, addirittura di oltre il 2% secondo la Confcommercio. Ed è salita anche la produzione industriale: più 1,1% rispetto al trimestre precedente nel quale era scesa di una percentuale identica e +2,7% su luglio dello scorso anno, grazie soprattutto all’automobile (+44,9%), all’energia e ai beni strumentali. Nei primi sette mesi del 2015 la produzione è salita dello 0,7%.
Giorgio Squinzi, presidente della Confindustria, è cauto: “C’è un clima nuovo, ma parlare di ripresa è arrischiato”. Semmai “siamo fuori dalla recessione”, come ha detto Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia una settimana fa a Cernobbio. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan è convinto che la stima del Pil (+0,7% quest’anno) potrebbe essere ritoccata al rialzo di uno o due decimali di punto. In ogni caso, da buon economista, sa che si tratta di piccoli spostamenti progressivi: per consolidarli occorre rimboccarsi le maniche. Bisogna investire, bisogna aumentare decisamente la domanda interna per compensare un rallentamento di quella estera e bisogna gettare fondamenta solide e durature affinché la crescita arrivi davvero.
Se è così, allora è un azzardo puntare tutta la politica di bilancio sulla flessibilità concessa da Bruxelles. In primo luogo perché i margini trattabili sono ristretti (pochi decimali di punto) e poi perché non è affatto detto che l’Unione europea ci stia. Paradossalmente, la stessa crisi dei rifugiati può far pendere la bilancia in senso opposto.
Il governo italiano può vantare di aver avuto ragione: alla fine il suo invito all’accoglienza è stato accettato. Ma la svolta l’ha realizzata Angela Merkel e la Cancelliera ha fondato la sua scelta su una considerazione di fondo: “Siamo un paese forte, solido e ricco abbastanza da poter accogliere i profughi siriani”, ha detto. Forte, solido e ricco, perché ha fatto le riforme e si è comportata da formica. Ciò serve naturalmente ad ammansire i falchi nel suo governo e quella parte dell’opinione pubblica (una maggioranza silenziosa?) che non è andata in stazione ad accogliere a braccia aperte i siriani. Ma vale come indicazione di carattere generale.
L’Italia non è abbastanza solida, forte e ricca, quindi le sarà più difficile gestire la crisi dei profughi e le sue ricadute sociali, culturali e politiche. Il salto alla politica di bilancio è presto fatto: con un debito tanto elevato e che continua a salire l’Italia non sarà solida, né forte, né ricca abbastanza per ammortizzare il peggioramento dei fattori esterni, quelli economici (il rallentamento della Cina e la brusca frenata dei paesi in via di sviluppo) e quelli geopolitici. Il governo italiano si è proposto come punto di riferimento nel sud del Mediterraneo, ma pochi pensano che abbia le risorse per fare da salvagente e da stabilizzatore.
Se le cose stanno così, da Berlino e quindi da Bruxelles verrà un pressante invito a frenare il debito e portare in pareggio il bilancio al più presto (siamo già in ritardo e sarà difficile strappare un altro anno di proroga). Ciò vuol dire che una politica fiscale di rilancio dell’economia (il taglio delle imposte siano esse sulla casa, sulle imprese o sugli individui) è possibile solo a patto di trovare le coperture. Juncker, la Merkel e Dijsselbloem innalzano il vessillo delle compatibilità finanziarie un tempo sventolato da Ugo La Malfa. E le risorse in effetti scarseggiano, lo dimostra la precipitosa ritirata sulle pensioni anticipate: esodati e donne dovranno aspettare.
Padoan se ne rende conto e spera che le teste d’uovo renziane alle quali è stata affidata la nuova versione della spending review, tirino fuori qualche coniglio dal cilindro. Finora non è arrivata una sola proposta concreta; Yoram Gutgeld ha ripetuto il solito refrain sui dieci miliardi di tagli possibili senza per questo intaccare i servizi sociali o immettere tossine recessive. Tutti gli credono (o fanno finta). Ma finora non si sono visti i dettagli. Proprio quelli, come si sa, che piacciono tanto al diavolo.