La ripresa post-estiva porta subito un dossier di primo livello sui tavoli istituzionali e dell’economia-Paese. L’autoriforma del Credito cooperativo è ormai un framework compiuto: dopo le ultime verifiche congiunte fra Tesoro, Banca d’Italia e Federcasse e il voto favorevole – a larghissima maggioranza, a fine luglio – del consiglio della centrale delle Bcc, presieduto da Alessandro Azzi. È virtualmente pronto l’articolato di un decreto del ministero dell’Economia, che sarà poi oggetto di dibattito parlamentare per la conversione. Una volta trasformata legge – prevedibilmente entro fine anno – la nuova regulation tornerà alle autorità creditizie (per i decreti attuativi e le disposizioni di vigilanza) e soprattutto alle Bcc stesse. Queste saranno chiamate a rendere operativi i due cardini congiunti della “riforma concordata”. L’autonomia del Credito cooperativo – che la riforma riconosce e mantiene – andrà salvaguardata con due momenti evolutivi: l’introduzione di forme di responsabilità reciproca più stretta e articolata fra le singole Bcc e la costruzione di strutture a gruppo.
Il settore – l’unico che la Seconda Direttiva Bancaria Ue ammette come eccezione al modello unico di banca-impresa, società di capitali orientata al profitto, tendenzialmente quotata in Borsa – è sotto pressione riformistica in tutta l’eurozona: soprattutto dopo che, dal novembre 2014, la Bce ha attivato la nuova vigilanza unificata. L’approdo a un new normal che adegui il mutualismo bancario all’exit della grande crisi globale sta impegnando molti sistemi-Paese: i vertici dei movimenti nazionali, i management, i governi e le autorità di vigilanza. Con un obiettivo alla fine omogeneo: ricalibrare gli equilibri fra singolarità di presenza sui territori e nuove esigenze di efficienza e soprattutto di gestione dei rischi imposte sia dai mercati che dall’Unione bancaria. E non importa se vi sono sistemi in cui il superamento della frammentazione emerge come prioritario, mentre in altri sono apparentemente sotto esame modelli più centralizzati. La questione – certamente dal punto di vista della nuova supervisione europea – è unica: quali sono le condizioni di sopravvivenza sostenibile del credito cooperativo nell’eurozona?
Rabobank è la seconda banca olandese, con quote di mecato retail che oscillano fra un quinto e un terzo. È un polo cooperativo formato da 123 banche locali nei Paesi bassi (dove un abitante su tre risulta socio o cliente), ma è anche una multinazionale: opera con una rete propria anche in California. Le sue dimensioni (670 miliardi di euro di attività totale) hanno favorito nel tempo la creazione di strutture centrali competitive a livello europeo nei diversi segmenti dell’industria bancaria. Con 46 miliardi di “capitale qualificante” Rabo è una delle istituzioni più patrimonializzate dell’eurozona. È un gruppo profittevole e presenta già una governance compatta.
Un recente incidente di percorso sui mercati (con perdite e sanzioni per pratiche improprie nel trading) ha tuttavia dato a Utrecht la spinta definitiva per aggiustare il suo modello: sotto la moral suasion della Banca d’Olanda.
L’ultima assemblea dei delegati delle Rabo locali, in primavera, ha votato una risoluzione articolata che dà mandato al management centrale di realizzare una nuova governance. In questa, da un lato i “membri (soci) di Rabobank, sia a livello locale che centrale” avranno “un’influenza rafforzata”. Ma dall’altro lato – ed è certamente l’indicazione più puntuale e rilevante – “le banche locali opereranno come un’unica cooperativa attraverso una licenza bancaria congiunta e unitaria (combined banking licence)”. L’inizio di una nuova era, anche per un gruppo che già nel 1972 – con la fusione delle due centrali preesistenti – aveva imboccato con decisione la strada del gruppo unico. Da quella strada – dice il caso Rabo – non si può tornare indietro: su di essa si può solo andare avanti.
Una lezione simile sta giungendo, in questi stessi giorni, dalla Francia. Anche il Credit Agricole – una delle prime venti banche del mondo – è alle prese con una quadratura del cerchio di governance e strategia, in aperto confronto con la Bce. La scelta del gruppo unico e compatto, la Banque Verte l’ha resa definitiva una quindicina d’anni fa, dopo l’acquisizione del Crédit Lyonnais e il riordino della Cassa centrale (Casa). Quest’ultima è stata trasformata in società di capitali e quotata in Borsa, mantenendo il 54% alle Casse regionali, coordinate da una Federazione nazionale.
Era impossibile che la crisi globale non lasciasse tracce profonde nei conti dell’intero gruppo Agricole ed era nella attese che le Casse regionali facessero leva sulla quota di perdite legata all’attività della capogruppo sui mercati per aprire il dossier-governance: per cercare di riattribuirsi poteri più ampi di quelli garantiti dal ruolo congiunto di azionisti di maggioranza. La Bce ha respinto al mittente la proposta. Le Caisses regionales sono e restano padrone del “loro” Credit Agricole (da cui dipendono funzionalmente nel gruppo) e hanno il diritto di coordinare la loro posizione di controllo confontandosi liberamente nel loro organo associativo. Ma nel 2015 questa loro realtà va modulata sulle nuove coordinate dimensionali del credito cooperativo: troppo piccolo per navigare da singola banca locale nell’industria bancaria; ma anche esso stesso too big too fail, troppo grande nel suo complesso, troppo per le Aziende-paese e per la stabilità bancaria dell’eurozona per essere gestito con semplici logiche associative.
Questo, almeno, è il pensiero di chi guida il Single Supervising Mechanism (ed è la francese Danièle Nouy). Oviamente al nuovo Ceo del Credit Agricole, Philppe Brassac, non avrà fatto alcun piacere annunciarlo ai consiglieri espressi dalle Caisses Regionale. Ma da Francoforte il messaggio è chiaro e unico verso ogni punto cardinale dell’eurozona: il credito cooperativo non è in discussione come formula di esercizio dell’attività bancaria; ma – al pari di tutte le altre banche dell’eurozona – deve darsi nuovi criteri di meritevolezza: deve confermare in modo nuovo il valore della sicurezza economico-finanziaria che è da due secoli parte integrante del patrimonio della cooperazione bancaria.