Da fabbrica della produzione di massa a cuore del polo del lusso. È questa l’immagine della ripartenza dello storico stabilimento Fiat di Mirafiori che, all’inizio della scorsa settimana, ha visto 300 metalmeccanici tornare a lavorare alla catena di montaggio – dopo 5 anni di cassa integrazione – dove si produrrà il Suv Maserati Levante. Da pochi giorni, i cassintegrati del reparto Carrozzerie di nuovo operativi sono 1500, tutti chiamati a frequentare specifici corsi di formazione, a realizzare le prime scocche e a effettuare i primi test.



Herald Wester, numero uno di Alfa Romeo e Maserati, punta a mettere sul mercato 75mila veicoli l’anno. La Quattroporte e la Ghibli – la cui produzione ha consentito di reimpiegare 2mila persone presso lo stabilimento di Grugliasco – stanno registrando aumenti di vendita superiori al 100% (si stimano 45mila vetture vendute in un anno), alle quali entro fine anno si aggiungerà il suv Levante che dovrebbe conquistare un 4% di mercato (pari a una produzione di 20mila veicoli l’anno). In sintesi, la nuova Mirafiori, simbolo della storia del gruppo Fiat, è pronta a ripartire.



La rinascita di Fiat oggi Fiat-Chrysler significherà per l’Italia la nascita di quell’industria dell’auto che l’Italia non ha mai avuto? È la domanda che si fanno in molti dopo il rapporto “L’automotive nei principali Paesi europei”, curato da Prometeia e UnionCamere e promosso dalla Commissione Industria del Senato a fine luglio.

Il rapporto ricorda che negli ultimi 20 anni il peso del settore dell’automotive, in relazione alle economie dei Paesi, si è ridotto in maniera a volte anche drastica; nonostante questo l’incidenza di questa industria sullo sviluppo e le prospettive dei paesi resta ancora molto forte. Basti pensare agli interventi diretti di alcuni stati come in America hanno fatto le Amministrazioni Bush e Obama, com’è stato fatto in Francia, in Gran Bretagna, in Germania, per citare i paesi a noi più vicini. Inoltre – afferma il rapporto – se si vuole garantire occupazione bisogna allargare la base produttiva e dunque l’export, perché il mercato italiano è quello che è; Marchionne è partito bene con il nuovo piano industriale Fca, ma per questo sarebbe ora che in Italia non ci fosse un solo costruttore e anzi il Paese diventasse terra di investimenti stranieri. Il recente caso Lamborghini è a questo riguardo molto interessante.



Il protezionismo di cui Fiat ha beneficiato in Italia, in particolare nel corso degli ultimi 50 anni, ha condotto passo dopo passo l’azienda di Torino al suo declino. Quando nel 1986 l’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri) guidato da Romano Prodi cede l’Alfa Romeo (azienda pubblica dal 1933) agli Agnelli, Fiat e industria dell’auto in Italia finiscono inevitabilmente e inopportunamente per coincidere. L’Iri valuta di vendere a Fiat e non a Ford, alla cifra di 1.700 miliardi delle vecchie lire, alquanto generosa nei confronti degli Agnelli. Governo e Sindacati scelgono di tutelare e proteggere l’azienda italiana dal concorrente americano. Si tratta di una scelta miope, poco lungimirante, perché la Ford avrebbe portato in Italia prestigio, innovazione ed expertise; e, in secondo luogo, è una scelta che finisce col privare la Fiat dello stimolo della concorrenza. In ultimo, un’industria come la Ford avrebbe permesso alle nostre relazioni industriali di crescere, in particolare al settore della metalmeccanica, stante il gap che la contrattazione di questo settore ha sempre scontato anche per la conflittualità e poca partecipazione delle parti.

Non c’è dubbio che il new deal di Sergio Marchionne abbia aperto la stessa economia italiana a un respiro più globale. Ma il manager del Lingotto come vede l’approdo di un costruttore importante in Italia? L’incidenza delle vendite nel nostro Paese è relativamente bassa (circa il 10%), validi motivi per opporsi non ce ne sono. Anzi, non c’è dubbio che questa possibilità possa portare un po’ di ordine in un settore quantomeno vivace. Cosa che, ancora una volta, potrà dare ragione a Lucky Sergio.

 

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