Negli ultimi giorni è diventato virale – sui mercati finanziari e sui connessi circuiti d’opinione – una sorta di role playing: mettersi nei panni, nelle teste, nei pensieri e negli umori dei “magnifici dodici” del Fomc. Quale sarà il decision  making – individuale e di squadra – che sarà sviluppato fra domani e giovedì nel consiglio dei governatori della Fed? Qual è la probabilità combinata che Janet Yellen e gli altri “signori del dollaro” rialzino i tassi dopo otto anni?



A chi dobbiamo credere, durante le ultime ore del quiet period, di silenzio assoluto? Alle ultime dichiarazioni del vicepresidente Stanley Fischer, che anche a Jackson Hole ha assicurato che “decideranno i dati”, solo i dati? Oppure a Dennis Lockhart, capo della Fed di Atlanta, per cui semplicemente it’s time per alzare? O ancora a William Dudley, capo della Fed di New York (cioè di Wall Street) sempre freddissimo sull’abbandono dei “tassi zero”?



Partecipiamo volentieri al “gioco del Fomc”. Con un elenco di sei motivi per cui – a nostro avviso – Yellen & C non dovrebbero avere dubbi sul muovere i tassi di un canonico 0,25%. Non è una previsione e tanto meno una scommessa: se il Fomc passerà due giorni a smontare una a una queste e certamente altre good reasons to hike lo sapremo. E ci ragioneremo.

Primo. La volatilità recente della Borsa cinese non è sufficiente a giustificare il rinvio. Il consenso è largo su una volatilità “di mercato”, per quanto importante e preoccupante per gli investitori. Non si tratta di squilibri legati a fondamentali  economici: quanto meno non a elementi nuovi su elementi ciclici o strutturali dell’economia cinese.



Secondo. Anche al lordo della piccola frenata di luglio, l’occupazione Usa  è già nell’intorno stretto delle cifre-traguardo pubblicate dalla Fed per il giugno 2016. Le prossime stime, ragionevolmente, partiranno da qui e saranno solo migliorative (“oltre la piena occupazione”).

Terzo. L’inflazione globale può certamente essere influenzata dall’andamento dei prezzi delle commodities (per quelle energetiche si può pensare a nuovi ribassi) e dall’applicazione di nuove tecnologie alla produzione. L’impatto è innegabile e tende a spostare la relazione tra occupazione e inflazione, ma non può annullarla.

Quarto.  Alan Greenspan – recente predecessore della Yellen – tardò ad  accettare che il “tasso equivalente alla piena occupazione” era cambiato e rinviò il rialzo: è uno dei capi d’accusa per cui, dopo il 2008, è quasi permanentemente sul banco degli imputati. 

Quinto. Fra ora e dicembre non sono attesi dati macro di rilievo tale da alterare le previsioni economiche. Perché attendere dicembre?

Sesto, non ultimo e forse più importante.  La fase di politica monetaria Usa che si è appena chiusa – il tapering, cioè il rientro dal triplo Quantitative easing – ha visto aumentare  la volatilità sui mercati durante il periodo degli annunci e l’ha vista ridimensionarsi sostanzialmente durante la realizzazione. Sono almeno otto mesi che la Fed “annuncia” il rialzo dei tassi. Se continua a non alzarli è alto il rischio che i mercati perdano di nuovo ciò di cui continuano ad avere estremo bisogno: la fiducia. Perché l’effetto benefico vero atteso dal rialzo è proprio questo: una maggiore stabilità indotta dalla sicurezza della Fed.