Molti si chiedono di quale crisi stiamo parlando. I dati relativi al commercio mondiale fanno registrare una costante caduta del traffico? da container e molte grandi imprese sono in sofferenza ed è in atto un forte processo di consolidamento. Non parliamo poi delle commodities. Anche qui la crisi degli enormi gruppi è esplosa e il travaglio Glencore, la regina del mondo del trader fisico nei minerali e nei beni non deperibili, ha provocato una rivolta degli azionisti. Anche il petrolio crolla, ma qui il discorso è diverso perché come non sanno – ripeto, come non sanno – i liberisti e i regolatori energetici, quel prezzo è fissato sempre e solo dalla politica di tentativi di monopsonio dell’offerta e dall’intreccio di questa politica con l’avvento del trading finanziario anziché fisico.
Prima del 1973, il petrolio si vendeva a tre dollari al barile, poi l’Opec cambiò la sua politica e il prezzo schizzò su del trecento per cento e ora scende perché nonostante la deflazione mondiale che produce stagnazione e recessione l’Arabia Saudita continua a produrre a manetta per punire gli Usa tanto dell’accordo con l’Iran, quanto della tiepida mano levata contro Assad che i sauditi considerano la pecora nera.
Poi vi è la grande incognita dell’America Latina, con la divisione tra paesi ortodossi che non crescevano e paesi eterodossi guidati dal Brasile ma azzoppati da Venezuela e Argentina, che non crescono più unitamente al Messico. La ragione? Elementare Watson: la crisi della Cina che finalmente disvela il suo vero volto di economia comunista a capitalismo terroristico e monopolista di Stato, governato da una élite di origine militare che sta fallendo nel tentativo di creare un mercato interno strappando i contadini alla terra e all’autoconsumo per scagliarli nelle città dove devono per forza salariarsi – mi si scusi il neologismo – e comprare merci anziché produrle da sé.
Il piano fallisce nonostante le decine di migliaia di esecuzioni capitali ordinate dal nuovo vertice politico-militare e così le città sono vuote, il Paese è paralizzato dalla paura e le città progettate per milioni di abitanti rimangono disabitate. Tutto crolla e non solo il lusso. La moda, ma anche l’acciaio e le materie prime come il rame e la soia, financo le rose dei più grandi paesi esportatori al mondo di questi bellissimi fiori, come la Nigeria e l’Uganda.
Solo gli Usa crescono, perché invece di essere un’economia fondata sulle esportazioni con bassi salari e scarsa domanda interna esportano neppure il dieci per cento del loro Pil e importano circa la metà del Pil mondiale. Tutto il contrario di ciò che capita nell’Europa a trazione tedesca e a deflazione da stagnazione, con scarsa domanda, bassi salari e prevalenza delle esportazioni, imponendo alle economie vassalle fornitrici di beni teutonici bassi salari e bassi costi di produzione, con effetti devastanti sulle crescita.
Ma mi si dice: come mai allora vi è la crescita italiana? Innanzitutto è meglio usare il termine crescita invece che ripresa, perché per uscire dalla recessione esistono le regole che dicono che bisogna avere almeno tre quadrimestri di crescita, anche di pochi punti decimali, come mi pare sia il caso di questi mesi. Il problema è che non bisogna farsi abbacinare dalle medie, dagli averages, ma ragionare in termini assoluti.
Un esempio? Abbiamo perso circa venti punti di produzione industriale. Ebbene oggi non decresciamo più, ma recuperiamo qualche decimo di punto. Certo, meglio di nulla, ma dobbiamo fare ancora una lunga strada. Altro esempio: abbiamo fatto registrare grazie al Jobs Act circa trecentomila occupati nuovi a tempo indeterminato; benissimo, ma ne abbiamo persi sei milioni in venti anni circa e quindi dobbiamo fare ancora una lunghissima strada, proprio mentre si annunciano grandi ristrutturazioni industriali nelle pochissime grandi imprese rimaste, con effetti devastanti.
Ma le cifre positive esistono e ci dicono che ciò che è cambiato profondamente e la natura stessa della crisi. È una crisi a frattali, ossia sempre mobile e instabile, come gli andamenti del mercato e dei consumi delle esportazioni. Solo il quindici per cento delle nostre imprese esporta, ed esportano le imprese a più alto contenuto tecnologico e idiosincratico – ossia che fanno merci insostituibili per lungo tempo e quindi meno imitabili. Vi è la recessione, ma non si torna indietro dai vantaggi – perché ve ne sono stati eccome – della globalizzazione, il più importante dei quali è aumentare nicchie e pori non colmabili dalle grandi multinazionali e dalle imprese più potenti nei mercati stranieri.
Insomma, una crisi a frattali, mobile, diseguale, in cui si cresce e si cade a macchia di leopardo, ma dove una sola cosa è certa: si cresce solo rilanciando la domanda interna, la vecchia e cara domanda effettiva. Chi ha orecchie per intendere intenda, prima che le vibrazioni da deflazione ci rendano tutti sordi ed… europei…