Un tempo — quando la finanza sregolata non era la norma — i banchieri centrali erano personaggi silenti, quasi invisibili. Parlavano solo nel giorno fatidico della loro Relazione annuale, preparata con cura, scritta da decine di esperti e sottoposta a limature che duravano a lungo. Poi tutto cambiò. Divennero dei personaggi pubblici proprio quando gli andamenti di borsa via via non riflettevano più gli andamenti dell’economia reale e i movimenti monetari tra nazioni e oceani, ma instabili e volatili variazioni degli operatori diffusissimi e degli operatori cosiddetti istituzionali, ossia i grandi fondi d’investimento, gli oligopoli finanziari di ogni genere e forma.
Le grandi crisi della fine del decennio Duemila ripongono al centro la potente spinta degli Usa. Sconvolta dal fallimento di Lehman Brothers e di Aig, non salvate dal gruppo di potere dominante dell’oligarchia finanziaria nordamericana, la politica americana instaurò un rapporto diretto con la Fed. I comportamenti del governo sono da allora di fatto coordinati con la Banca centrale al di là di ogni retorica della separazione tra politica e finanza e sull’indipendenza delle banche centrali.
L’Europa non sfugge a questo percorso. La Bce è sotto attacco continuo da parte delle istituzioni politiche tedesche. Si è giunti persino a diatribe che investono le cuspidi del potere giudiziario. Oggi che la crisi cinese riversa sulle borse la crisi di un modello strutturale export lead che Xi Jinping vuole mutare a favore del mercato interno, anche in questo caso la Pboc assume un ruolo centrale.
La politica dei tassi d’interesse e del Quantitative easing è oggi centrale in tutto il mondo per il legame che in tutto il mondo esiste tra queste politiche e l’andamento ciclico delle quantità di monete, le loro oscillazioni quantitative. Perché? Ma perché la deflazione si affaccia con la prepotenza della stagnazione secolare che minaccia tutto il pianeta! Il ruolo di una politica imbrigliata nella e dalla finanza paradossalmente diventa sempre più importante. Ma ecco il paradosso: tanto la politica quanto la politica mondiale sono profondamente divise; solo la Fed, la Banca del Giappone e quella del Regno Unito agiscono di concerto. La Bce è un fuscello al vento, sbattuto tra pressioni pro inflazioniste nordamericane e la mordacchia tedesca deflazionista. La Cina fa da sé, è stand alone.
E in questo disordine sta il pericolo. Tutti si muovono in ordine sparso. A Jackson Hole sia Mario Draghi che Janet Yellen non hanno partecipato. Meglio, non avrebbero saputo che dire tra l’alternativa di rialzare i tassi oppure no.
Ossia per la Fed se farsi carico solo degli Usa oppure danneggiare ancor più un mondo in bilico sulla catastrofe, interrompendo il possibile ciclo di ripresa. Il disordine è in ogni dove. Se poi guardiamo all’America del Sud la disgregazione è ancor più profonda, le faglie politiche si riflettono sulle politiche delle banche centrali di quell’immenso continente che è oggi il più colpito dalla crisi strutturale cinese.
Non si va verso un nuovo ordine mondiale, ma verso un nuovo disordine planetario. Il ruolo dei banchieri centrali si trasforma. Ma per cosa, per chi, verso dove?