«Lo scandalo Volkswagen è una punizione inflitta dagli Stati Uniti alla Germania per la sua politica di austerity». Lo evidenzia Giulio Sapelli, professore di Storia economica all’Università degli Studi di Milano. Ieri Martin Winterkorn, ad della casa automobilistica tedesca, si è dimesso dopo il caso sulle emissioni diesel truccate. In tutto 11 milioni le auto coinvolte dallo scandalo, venuto alla luce grazie a un’inchiesta del dipartimento Giustizia degli Stati Uniti. Ora la Volkswagen rischia una multa da 18 miliardi di dollari, con il titolo in Borsa che ha già bruciato 24 miliardi di euro in due giorni.
Qualcuno ritiene che questa vicenda nasca da una volontà Usa di colpire interessi europei. È un’ipotesi sensata?
Senz’altro c’è un problema di spionaggio industriale e di interferenze statali anche nel mercato, e del resto la concorrenza si fa anche in questo modo. Inoltre si tratta di una punizione degli Stati Uniti alla Germania per la politica economica europea. A finire nel mirino è l’Europa deflazionista e le stesse critiche mosse da Berlino alla presidente della Fed, Janet Yellen, per non avere alzato i tassi d’interesse.
Chi è esattamente il bersaglio delle autorità Usa?
Il bersaglio è la politica economica dell’austerity voluta dalla Germania. Ricordo del resto che la Volkswagen non è una società completamente privata, in quanto è partecipata dal Land della Bassa Sassonia. Colpendo la Volkswagen gli Usa colpiscono la Germania, in quanto la casa automobilistica è l’emblema del capitalismo tedesco. In Germania esiste un capitalismo tedesco, rappresentato dallo stesso governo. Questo attacco quindi non è tanto alla Volkswagen ma piuttosto all’intera nazione.
Ma non le sembra strano che un’impresa sia considerata come l’emblema di un’intera nazione?
Difficile comprendere questo dato di fatto dal punto di vista italiano. Da noi non esiste un capitalismo italiano, perché i capitalisti italiani pensano solo al lavoro e alle loro aziende ma non hanno alcuno spirito civico. Basta vedere la Fiat di Marchionne che dopo avere ricevuto miliardi dallo Stato oggi ha spostato la sede fiscale e legale fuori dall’Italia.
A parte la questione dell’austerity, lei che cosa legge in questo caso Volkswagen?
È un clamoroso fallimento della teoria autoregolativa della buona governance. Che cos’è la teoria della buona governance? È la teoria in base a cui la buona governance, più che con le leggi dello Stato, si realizza con l’autoregolazione e con le verifiche ispettive note come “audit committee”. Una teoria smentita appunto dalla vicenda Volkswagen e da altri casi che hanno riguardato il capitalismo tedesco. Non parliamo del capitalismo filippino o indonesiano, ma di un capitalismo clientelare presente anche in Germania. Ricordiamo che la tedesca Siemens nel 2004 è stata condannata in Italia per la corruzione grazie a cui aveva vinto gli appalti Enel.
Quella della Volkswagen è davvero una vicenda così grave da mettere in crisi un intero approccio?
Sì. L’aspetto più grave è che non si è trattato di una falsificazione di documenti o di eccesso di rischio da parte di un singolo operatore. Siamo di fronte a un’operazione di massa che ha riguardato decine di migliaia di autoveicoli, con un programma software appositamente pensato per falsificare i dati sulle emissioni di CO2 al momento dei controlli. Siamo di fronte a un episodio di corruzione che usa strumenti tecnologici raffinatissimi e che è messa in campo attraverso migliaia di soggetti. Quindi c’è una connivenza estesissima.
Ma essere tedeschi non era sinonimo di legalità e precisione?
Se la stessa cosa fosse stata scoperta a Palermo o a Napoli, i giornali tedeschi avrebbero scritto che i popoli mediterranei sono antropologicamente propensi alla corruzione. Dopo lo scandalo Volkswagen, le stesse teorie antropologiche sulle organizzazioni sociali andranno riviste. Le differenze tra Europa del Sud ed Europa continentale sono destinate a scomparire.
Tutto il mondo è Paese?
Io non generalizzerei. La vera questione è la superiorità del sistema di controllo e di lotta alla corruzione degli Stati Uniti, basati su corporate governance e common law, rispetto ai sistemi europei. Il capitalismo americano non è stato immune da gravi errori, come avere unificato le banche d’affari e quelle commerciali, ma dispone di strumenti di difesa di consumatori e azionisti che l’Europa invece non ha. I Paesi anglosassoni sono più civilizzati dei nostri perché da loro quando qualcuno sbaglia poi paga.
Da che cosa nasce questa superiorità anglosassone?
Nasce dalla cultura del common law, dal fatto che hanno gli audit committee e non i collegi sindacali, che negli Usa chi non paga le tasse va in galera, che c’è la class action. Ricordo che 30 anni fa una Ford Taurus prese fuoco e una bimba morì nell’incidente: in seguito a una class action la casa automobilistica fu costretta a ritirare un milione di auto dal mercato.
In Europa sarebbe pensabile una cosa simile?
La vedo difficile. Quella statunitense è una cultura che nasce da una lunga storia, l’America ha avuto grandi giuristi come Bradley che hanno fondato una difesa del consumatore su solide basi giuridiche. I nostri avvocati di diritto societario invece hanno sempre e solo difeso gli azionisti di maggioranza e non hanno mai pensato a difendere i consumatori.
(Pietro Vernizzi)