Le tensioni nel governing council della Bce sono chiaramente tornate al livello dell’inizio dell’anno: quando il presidente Mario Draghi battagliava per il Quantitative easing dell’euro. Forse sono addirittura più alte. Ieri il numero uno dell’Eurotower era già arrivato a Strasburgo per un’audizione al Parlamento europeo quando le agenzie internazionali hanno battuto un flash da Lubiana. “La Banca centrale europea non sta attualmente discutendo né di prolungare il suo programma di acquisto asset del valore di 1.000 miliardi di euro, né di uscirne”. Parola del  governatore della Banca di Slovenia, Bostjan Jazbec. “La politica monetaria funziona con uno sfasamento, quindi è troppo presto per discutere qualunque scenario diverso da quelli sui quali si è già deciso”.



Difficile che il banchiere centrale sloveno – membro del consiglio Bce – non sapesse cosa stava dicendo – anzi: cosa doveva dire – due ore prima che Draghi ripetesse quello che aveva detto una decina di giorni fa, dopo l’ultimo consiglio a Francoforte. La Bce “è pronta ad aggiustare la quantità, la composizione e la durata degli acquisti di bond se necessario”, ha confermato Draghi davanti agli euro-deputati. E questo – ha ribadito – perché “occorrerà più tempo del previsto per la ripresa dell’inflazione vicino al 2%”. La politica monetaria nell’eurozona rimarrà “accomodante” e Francoforte “non esiterà ad agire se necessario” (nuova eco dell’ormai memorabile whatever it takes proclamato nell’estate 2012 a protezione dell’euro). Comunque, l’esatto contrario dell’ennesimo avvertimento lanciatogli dai falchi del Nord Europa, nell’occasione attraverso il banchiere-satellite sloveno.



Sarà estremamente interessante ascoltare, a questo punto, il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, invitato per domani a Firenze dall’Osservatorio Permanente Giovani Editori di Andrea Ceccherini. Weidmann arriva a Firenze – la città del premier italiano Matteo Renzi – da una Germania improvvisamente scioccata e assediata. Sono molti e incandescenti i fronti su cui – dopo l’ennesima crisi greca – la leadership di Berlino è parsa entrare in crisi: dall’emergenza-migranti – che più voci hanno giù giudicato buon motivo per allentare il rigore fiscale in Europa – fino alla vittoria tattica delle “colombe” all’ultimo vertice della Fed, che ha lasciato i tassi a zero utilizzando l’assist  (preconfezionato?) di Draghi, pessimista sull’evoluzione del ciclo in Eurolandia.



Come ricorda anche Giulio Sapelli su queste pagine, il ciclone Volkswagen ha poi definitivamente scosso ogni normalità nei rapporti fra Usa e Germania: soprattutto allorché l’establishment imprenditoriale tedesco stava moltiplicando il pressing sul cancelliere Angela Merkel per superare le sanzioni ucraine contro la Russia. Che restano invece un punto fermo degli Stati Uniti nel delicato risiko geopolitico che coinvolge ormai un’area vastissima: da Mosca al Golfo passando per Turchia, Siria e Iraq fino al Mediterraneo (da Israele alla Libia).

Su questo sfondo, quando Draghi e Yellen volano in fomazione come “colombe” è ovvio che il nervosismo della Germania raggiunga la soglia rossa. Ma è difficile che basti il banchiere centrale della piccola “colonia” slovena e far innervosire Draghi.