E se l’Alfa Romeo fosse passata al gruppo Volkswagen così come avrebbe gradito una parte della sinistra italiana (Fiom in testa) per punire la “fuga” di Fiat dall’Italia? L’argomento, dopo lo scandalo che ha investito la casa tedesca, è ormai passato di moda. Ma si presta comunque a qualche riflessione. A partire dall’analisi dei tanti improvvisati guru nostrani delle quattro ruote che per anni hanno opposto alla Fiat che non fa gli investimenti la saggezza dei vertici del gruppo tedesco. Come dimenticare la foga con cui Maurizio Landini ha elogiato i”modelli” di auto che Vw sfornava senza sosta mentre Marchionne stringeva la cinghia e sfidava Cgil e Confindustria? E così Romano Prodi usava Wolfsburg per ammonire “governo e sindacati” sull’importanza delle “strutture di ricerca e sindacati” in Fiat. Così come Massimo Mucchetti, oggi presidente della commissione Industria del Senato, che da giornalista del Corriere della Sera, ha più volte elogiato la casa tedesca che “di modello in modello, raccoglie le reazioni della clientela, corregge, migliora. Consolida la reputazione”, anche se “certo rimanere al tavolo dell’innovazione costa”.
Il vice direttore del Foglio, Marco Valerio Lo Prete, ha raccolto una piccola antologia degli estimatori del modello Volkswagen, efficace contrapposizione al bieco americano che porta il nome di Sergio Marchionne. Si va da Carlo De Benedetti (“Vw presenta 16 nuovi modelli di qui al 2016, mentre a Torino i progettisti sono in cassa integrazione”) ai cantori dell’auto verde. “I gruppi automobilistici come Volkswagen – dichiarava tre anni fa Angelo Bonelli, presidente dei Verdi italiani – hanno investito nell’auto pulita e sono riusciti a restare competitivi in Italia e in Europa. Invece la Fiat ha deciso di produrre Suv negli impianti Mirafiori”.
Parole che fanno sorridere, salvo ripensare che, quando Marchionne osò accusare il concorrente tedesco di dumping dei prezzi reso possibile, tra l’altro, dalle più favorevoli condizioni finanziarie della corporate tedesca, una fetta rilevante del partito verde si schierò con i tedeschi contro il bieco amerikano che si apprestava a traghettare Fiat Chrysler a Wall Street. Finalmente “una strategia globale” e non “americanizzata”, esultava Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, cui andrebbe consigliata la visione del video presente sul sito dell’Uaw, il sindacato delle tute blu di Detroit, in cui Dennis Williams, il numero uno del sindacato, illustra il nuovo contratto siglato con Fiat Chrysler assieme a Marchionne. Oppure è meglio chiudere gli occhi, come ha scelto di fare il presidente della Camera Laura Boldrini quando decise di disertare l’inaugurazione dell’impianto di Pomigliano in segno di dissenso contro le scelte di Marchionne.
Per carità. Lo scandalo dei diesel truccati (11 milioni di vetture, mica un incidente di percorso) non offusca più di tanto lo straordinario patrimonio di tecnologia e lavoro dell’azienda leader europea dell’auto. Ma offre l’occasione per un esame meno ideologico della partita.
1) Nel board del gruppo tedesco spicca la forte rappresentanza del sindacato (10 su 20) che, assieme agli esponenti nominati dal Land della Sassonia (per tradizione roccaforte della Spd), ha un ruolo rilevante nella gestione. Basti dire che, dopo le polemiche dimissioni di Ferdinand Piech dalla presidenza, si è fatto ricorso a un leader sindacale per traghettare, come appariva scontato fino ad una settimana fa, l’azienda nelle mani di Martin Winterkorn, sostenuto nella battaglia contro lo stesso Piech. Le piattaforme su cui nascono i modelli Volkswagen, per esempio, sono progettate con la consulenza di herr Osterloh, il potente boss del sindacato interno, con l’obiettivo di coniugare la massima efficienza produttiva con un regime di alte paghe e piena occupazione.
Tutto bene, salvo il fatto che la cogestione non ha affatto impedito lo scandalo delle emissioni diesel, così come altri episodi imbarazzanti nella storia di Wolfsburg. La sensazione è che, in presenza di tecnologie sempre più complesse, il ruolo di controllore non può essere affidato a un consiglio di sindacalisti (attenti solo alla difesa di impieghi e salari) e di politici: la governance tedesca non è più un modello. Il board di una società di quelle dimensioni deve essere composto da indipendenti.
2) Dietro il sipario della cogestione, in questi anni si sono consumate in casa Volkswagen faide cruente, che fanno impallidire le gesta più deteriori dei salotti nostrani. Ferdinand Piech, protagonista del boom di Audi, è stato il fautore di una politica imperiale basata su un sistema federale. La casa di Wolfsburg, sotto il suo comando, ha fatto shopping (Ducati e Italdesign, gli ultimi esempi italiani) con l’obiettivo di allargare i confini del gruppo in ogni segmento della mobilità. L’obiettivo? Mani libere ai manager purché centrassero obiettivi sempre più ambiziosi di vendita. Tutt’altra la visione di Winterkorn, che da aprile ha cercato di imporre un controllo centralizzato, con il risultato, tra l’altro, di spingere Giorgetto Giugiaro all’uscita da Italdesign: il creatore della Golf non si vedeva nei panni del funzionario. Ma dal duello è emersa una profonda spaccatura di visione che è tra le cause della crisi attuale: il tentativo di passare da 400 mila a un milione di auto vendite negli Usa spiega la scelta di truccare i modelli per avere vetture performanti senza sacrificare i profitti. A costo di correre gravi rischi. Per evitare tali tentazioni, è importante la massima trasparenza agli occhi del mercato.
3) Nel 2013 Angela Merkel in persona s’impose perché il Consiglio Ue rinviasse a data da destinarsi le decisioni sulle emissioni di sostanze nocive. In questo modo la Cancelliera guadagnò un rinvio di un anno delle nuove regole ambientali, a vantaggio dei tre Big tedeschi. In quell’occasione italiani e francesi, che vantavano dati migliori, hanno dovuto chinare il capo. È solo un esempio del gioco di squadra della Germania ogni qualvolta vengono messi in discussione gli interessi del Paese. Ma la politica rischia di essere un alleato scomodo. Almeno per gli altri. La Germania, per facilitare la ripresa dell’industria dell’auto, non esiterà a smantellare la politica europea sugli aiuti di Stato. Consapevole, tra l’altro, di poter trovare alleati tra i nostalgici della “politica industriale” di ogni Paese, Italia in testa, dove il partito pro Volkswagen, inteso come avversario dichiarato del capitalismo classico, è pronto a svolgere il suo ruolo gregario.