Le indiscrezioni si bevono tutte d’un fiato, poi ci si ragiona su. L’ultima spiaggia sarebbe, secondo alcuni osservatori di mercato, l’imposizione di una tassa sui contanti. Dal momento che ci sono conti bancari dove il denaro giace inerte, alle autorità sarebbe concesso di tassarlo per obbligare i risparmiatori a spenderlo, facendolo circolare nel sistema finanziario, anziché lasciarlo parcheggiato nelle casseforti. 



Per farlo l’idea è inserire una fascia magnetica nelle banconote prelevate in modo che rimanga registrata la data del prelievo (l’indiscrezione viene riportata dal sito “Wall Street Italia”). Quando la banconota viene ridepositata in banca, l’istituto userà i dati per dedurre una percentuale del valore del denaro, proprio come una tassa per il deposito di contanti. 



Se la percentuale dell’imposta fosse del 5% al mese e un risparmiatore prelevasse una banconota da 100 dollari per due mesi e poi ridepositasse il denaro, la banca registrerebbe un valore depositato di 90,25 dollari (100 dollari x 0,95 viene 95 dollari per il primo mese, 83,92 dollari x 0,95 viene 79,73 dollari per il secondo mese).

In cotanto affanno si scorge solo l’ultimo tentativo di raschiare il fondo di quel potere d’acquisto. Prima è stato depauperato, deflazionando i redditi. La ricchezza delle famiglie nipponiche, per esempio, si è deteriorata negli ultimi 5 anni passando, dagli oltre 47mila dollari di reddito medio pro capite, ai quasi 36mila attuali a causa di una crescita del Paese generalmente molto debole. Poi ancora depauperato, inflazionando i prezzi con le politiche monetarie espansive, riducendo il rendimento dei risparmi investiti. Bella, no?



Già, dentro un mondo che gira in tondo si può fare tutto, pure farne borsellino dove mettere e togliere monete a piacimento. Basta con queste manovre. Quel potere d’acquisto serve per fare la crescita: un “Fondo comune d’investimento” garante della spesa. Comune appunto, gestito proprio da quelli della spesa aggregata.

Le risorse ci stanno: il reddito da lavoro, investito per smaltire il bisogno; i risparmi, investiti per finanziare gli investimenti delle imprese. Già, quelle imprese – 30mila società impegnate in tutti i settori produttivi e in tutte le aree geografiche – di cui McKinsey (con lo studio “Playing To Win. The New Global Competition For Corporate Profits”), facendo le pulci e le stime, rintraccia i guadagni fatti e da fare dal 1980 al 2025. Gli utili operativi netti, che nel 1980 ammontavano a 2 trilioni di dollari e che a fine 2013 erano di 7,2 trilioni, saranno a fine 2025 di 8,6 trilioni.

Queste risorse investite, abbassando i prezzi, attivano altre risorse immateriali disponibili nel Dna di chi sa spendere ben oltre il bisogno, smaltendo tutto il prodotto, così far riprodurre e rifare utili. Cotanta spesa fa il resto, paga l’Iva, finanziando la spesa pubblica; quella risorsa che fa infrastrutture, leggi; gestisce la giustizia, la sicurezza, l’istruzione. Buona per garantire un ambiente economico produttivo, acconcio al fare business.

Beh, in fondo in fondo, quel fondo adeguatamente capitalizzato rende. Sì, rende pure fluido e continuo il ciclo e di questi tempi…