In tutti i Paesi dell’eurozona è in corso di preparazione la legge di bilancio (o Legge di stabilità) secondo un calendario predefinito: il 15 ottobre il testo dovrà essere ricevuto dalla Commissione europea per iniziarne un esame comparato, nonché di compatibilità con le regole che si sono dati gli Stati che appartengono all’area dell’euro – principalmente il Fiscal compact. In questi giorni in Italia, la legge di stabilità non riceve i grandi titoli di prima pagina degli anni scorsi; probabilmente per il maggior rilievo della riforma costituzionale (specialmente il riassetto del Senato) e per l’emergenza migrazione.



L’aggiornamento del Documento di economia e finanza (Def) è stato accolto senza eccessive polemiche, nonostante preveda un disavanzo significativo e molto più ampio di quanto programmato in passato. Il tema che sembra più appassionare stampa e opinione pubblica è l’eventuale possibilità di anticipare la data di pensionamento.



Non voglio pensare male e indurre a ritenere che le polemiche sulle pensioni (elemento sempre emotivo) siano in parte uno specchietto per le allodole al fine di evitare il dibattito proibito: quello sul debito pubblico. Dall’ultimo bollettino di Bankitaliarisulta che a maggio, quindi due mesi dopo il periodo preso in considerazione dall’Eurostat, il debito ha sfiorato i 2.200 miliardi di euro e dall’inizio del 2015 è cresciuto di 83,3 miliardi. È probabile che a fine anno sia vicino al 140% del Pil.

Utile ricordare che all’epoca del negoziato del Trattato di Maastricht il nostro debito pubblico era leggermente inferiore al 120% e che fummo ammessi nell’eurozona principalmente grazie a un clausola (chiamata l’emendamento Guido Carli) in base alla quale ci si impegnava a che tendesse a raggiungere il 60%. La clausola è stata resa più forte dal Fiscal compact: avremmo dovuto ridurre il rapporto debito/Pil secondo una formula più stringente (la riduzione di un ventesimo l’anno della parte di debito che eccede il limite del 60% del Pil) – clausola a cui l’Italia non ha ottemperato, affermando che comunque il nostro debito (il maggiore dell’eurozona in senso assoluto) è “sostenibile”.



Ma cosa vuol dire “sostenibilità” del debito pubblico. Gira un’interpretazione un po’ grossolana secondo cui il debito di uno Stato è “sostenibile” sino a quando i creditori ne accettano gli interessi. In uno degli ultimi PIER Working Papers, No. 15-033, Pablo D’Erasmo della Federal Reserve Bank of Philadelphia, Enrique G. Mendoza della University of Pennsylvania e Zhang Jingh della Federal Reserve Bank of Chicago individuano punti deboli nell’approccio tradizionale e costruiscono tra strumenti alternativi. Li applicano agli Stati Uniti e all’Ue e i risultati non sono particolarmente incoraggianti, soprattutto per l’Italia. È lavoro denso di non facile lettura, ma che merita di essere esaminato.

In un altro lavoro, due economisti della Banca mondiale, Alessandra Campanaro e Dimitri Vittas esaminano le lezione dell’“approccio greco-romano” nella gestione del debito pubblico. Le “Greco-Roman Lessons” non hanno nulla a che fare con l’antichità, ma con gli ultimi trenta-quaranta anni quando sono esplosi il debito pubblico di Atene e di Roma. Secondo lo studio, la gestione “greco-romana” del debito è stata particolarmente abile nella transizione verso un mercato professionale del debito pubblico molto facilitata negli anni Novanta dalla determinazione di entrare nell’eurozona. Ciò non significa, però, che si sia usciti dai guai.

La Grecia ha dovuto chiedere un maxi-prestito ai suoi creditori. Ora che Atene ha le premesse per un Governo stabile e l’attuazione del “memorandum d’intesa” con le istituzioni europee, l’Italia è, paradossalmente, a maggior rischio sia perché in termini assoluti il suo debito è quasi dieci volte quello della Grecia, sia perché, aggiornamento del Def alla mano, le prospettive sono per un ulteriore aumento.

Quindi, il debito dovrebbe essere uno dei principali argomenti di discussione. Anche in quanto negli ultimi tre anni non sono mancati studi e proposte volti a ridurlo.