La prima uscita mediatica del nuovo direttore generale Rai, Antonio Campo Dall’Orto, aveva come obiettivo di superficie chiarire chi è il vero capo-azienda di Viale Mazzini: e soprattutto chi lo sarà sempre di più dopo che la riforma darà all’ex mago di Mtv Italia i galloni di amministratore delegato. Non è stato un caso che la conversazione con il Foglio sia stata pubblicata la mattina del primo cda Rai dopo la pausa agostana: con i neo-consiglieri già preoccupati di restaurare in fretta i piccoli o grandi privilegi di sempre al settimo piano e con la delibera pronta per la conferma formale di deleghe rafforzate alla neo-presidente Monica Maggioni (una giornalista di provenienza interna). Non ha stupito neppure che al Foglio Campo Dall’Orto abbia detto che “le nomine” (la vera costante del tormentone Rai) “si faranno”, però “senza fretta”. Ma non è stato questo il cuore del suo primo signalling.  



Il nocciolo ha ruotato attorno all’espressione media company, nella quale il nuovo top manager ha voluto sintetizzare al massimo una strategia che non ha più al centro il broadcasting. Una strategia che punta invece di più sulla produzione di contenuti piuttosto che sulla sua distribuzione sul tradizionale canale tv e sulla sua valorizzazione multi-piattaforma, anzitutto wul web.



Al di là dello storytelling su una “Rai pop” (“Dobbiamo portare avanti un grande progetto di digitalizzazione culturale dell’azienda Rai per permetterle di diventare un riferimento rispetto ai comportamenti e ai linguaggi contemporanei”) la trasformazione della Rai in media company farà subito drizzare le orecchie in Piazza Affari. Per almeno due ragioni.

La prima riguarda RaiWay, la controllata quotata di Viale Mazzini che ha la proprietà delle torri tv. La società era stata oggetto in primavera di un’Opa da parte del gruppo Mediaset (EiTowers), bloccata dal governo Renzi essenzialmente con argomenti di tipo normativo-burocratico ed eludendo la sostanza finanziaria e strategica della questione. Il problema del risanamento del bilancio Rai ma soprattutto quello della razionalizzazione dell’industria tv in Italia sono stati lasciati in congelatore. Ma il settore non ha aspettato: la spagnola Abertis ha comprato le torri Wind e Telecom ha quotato in Borsa le sue torri (Inwit). Ora Campo Dall’Orto dice che la Rai deve superare la logica del broadcasting e concentrarsi sul content providing. Bene: la riapertura del dossier RaiWay sarebbe la conseguenza logica della premessa. La Rai ha bisogno di risorse e deve fare tagli, ha detto il nuovo direttore generale: perchè non riallacciare i contatti con EiTowers per capire se l’Opa può essere ancora d’attualità? Perché non imprimere alla media industry italiana il dinamismo renziano proprio usando la Rai come leva?



A proposito di Telecom: anche l’incumbent delle tlc italiane è alle prese da tempo col “dilemma della rete”. E per la verità su questo fronte il governo Renzi preme perché Telecom venda: o come minimo metta a fattor comune la sua rete all’interno del progetto Banda Larga 2020. In realtà – sembra passato un secolo – la trasformazione di Telecom in media company era stata messa in cantiere già da Marco Tronchetti Provera nel 2007. Il piano prevedeva la cessione di Tim (a investitori del Sudamerica, la stessa area dove oggi Telecom è impantanata sulla sola Tim Brasil), la pubblicizzazione  della rete presso la Cdp (allora “piano Rovati”, oggi “piano Guerra”) e il possibile ingresso di un operatore televisivo (allora era Sky). Passo successivo avrebbe potuto essere l’aggregazione di Rcs.

Sarà un caso ma Campo Dall’Orto la privatizzazione della Rai non sembra essere d’attualità. O meglio: non secondo schemi convenzionali. Ma nell’era renziana nulla può essere considerato più “convenzionale”. Mentre sul mercato tutto cambia rapidissimamente. Il dg Rai ha citato una gigantesca “macchina di contatti online” come Buzzfeed: non è forse la società comprata il mese scorso da Nbc, uno dei tre grandi network tv Usa? E’ da tempo che Rai e Rcs, Telecom e Sky, Mediaset sono passeggeri di una sola, piccola zattera: quella della media industy italiana sbattuta nell’oceano della Rete.