Il “Renzi di Cernobbio”, ieri, è sembrato bacchettare un po’ il Renzi che – quattro giorni prima – aveva festeggiato in tempo reale, con un videomessaggio alla nazione, la revisione al rialzo del Pil da parte dell’Istat per i primi due trimestri. “Non erano cifre desolanti prima, non sono cifre esaltanti ora”, ha tagliato corto a Cernobbio un premier cui certamente ha fatto solo piacere “mettere in cascina” un +0,7% di Pil che potrebbe essere tale a fine anno. Ma ora è tempo di impostare la manovra finanziaria per il 2016: per di più in un quadro globale che di certo ha soltanto gli improvvisi scrolloni della Borsa cinese, il minor ottimismo della Bce di Mario Draghi sulla ripresa europea, la forte cautela della Fed a dichiarare chiusa la lunga crisi con un rialzo dei tassi del dollaro.
Su questo sfondo Renzi è il primo a renderso conto che il suo tentativo di “balzo in avanti” in termini di politca finanziaria interna espansiva può rivelarsi arduo e problematico. Per questo il suo intervento al Workshop Ambrosetti è risultato costruito su considerazioni e ragionamenti molto più che nello stile consueto di Renzi. Ed era chiaramente rivolto alla platea più internazionale di Cernobbio, dove sedeva come negli anni scorsi un personaggio come Jean Claude Trichet, predecessore di Mario Draghi al vertice Bce.
Possiamo provare a sintetizzare cosl il filo del ragionamento di Renzi “il realista” (quasi allineato sul suo ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan). Primo: sarà molto faticoso ottenere la flessibilità della Ue sul bilancio. Secondo: il governo ha fatto il possibile e forse l’impossibile varando ad esempio una riforma del lavoro in un anno rispettando il parametro del 3%, “quando la Germania lo ha fatto in tre anni, ottenendo una sforatura dall’Europa”. Terzo: l’Italia non è né la Spagna né la Gran Bretagna (che è fuori dall’euro). Se potesse sforare al 5% o al 6% potrebbe “sparare” cinquanta o sessanta miliardi negli stimoli alla ripresa. Quarto: Roma non può invocare a voce piena la flessibilità Ue perché il debito pubblico resta “un macigno” (“anche a fronte della ricchezza privata”). Quinto: la riduzione del debito diventa la priorità nel 2016. Il che, francamente, è una notizia: quasi più grossa del preannuncio del taglio delle tasse da 50 miliardi, cominciando da Imu e Tasi.
Taglia-debito: se ne parla dal drammatico autunno del 2011. Non si è potuto fare quasi nulla: e non potrà essere certo la privatizzazione delle Poste – qualche miliardo – a spostare i termini del problema. Un problema di delicatezza estrema, che ieri Renzi si è giustamente guardato dall’affrontare nel merito.
E’ noto che ci sta lavorando Yoram Gutgeld, “testa d’uovo” italo-israeliana, capo della McKinsey a Tel Aviv e voluto da Renzi fra i deputati Pd eletti nel 2013. E’ noto che sul tema sta abbozzando un libro – forse più di un libro – Carlo Cottarelli, ex commissario alla spending review e attuale executive director per l’Italia al Fmi. Sono note tutte le ipotesi di esperti accademici e non: il più popolare resta focalizzato sull’emissione di BTP speciali dalla cartolarizzazione di beni pubblici riaggregati in fondi. E’ noto che un altro giovane premier italiano lanciò nel 1935 una “rendita irredimibile al 5%”. E’ noto che l’allungamento del debito pubblico di un paese dell’eurozona (la Grecia) è sul tavolo di tutte le sedi: Ue, Bce, Fmi.