E’ toccato a Giorgio Squinzi provare a tradurre in italiano un “renzese” sempre più confuso nel narrare la politica economica prossima ventura. “Sono fra quelli per cui è meglio ridurre le tasse sulle imprese piuttosto che ridurre le tasse sulle case come Imu e Tasi”, ha detto ieri a Bologna il presidente di Confindustria: ormai quasi uscente, par di capire senza troppi rimpianti né da parte sua né da parte di un premier rottamatore di corpi intermedi e amante dei nuovi boiardi penetrati anche nelle stanze di Viale dell’Astronomia.
Le parole di Squinzi sono parse fino a un certo punto un apprezzamento per un orientamento che, per la verità, a Cernobbio non è stato delineato da Renzi,, ma a ruota dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan: lui stesso sempre più affannato nel tradurre in corsa i proclama del suo premier.
Dunque: “Due miliardi di sconti fiscali alle imprese” campeggiava sui giornali di ieri mattina. E Squinzi ha applaudito, ma nel farlo non ha potuto fare a meno di rilevare che si è trattato di una netta sterzata rispetto agli annunci dello stesso premier, appena dieci giorni fa: “Il 16 dicembre celebreremo il funerale delle tasse sulla casa”. Una linea che sembrava confermare in tutto il mantra degli “80 euro”: la ripresa passa per lo stimolo alla domanda di consumi da parte delle famiglie, è a loro che bisogna mettere in tasca al più presto il grosso di 50 miliardi di tagli fiscali in tre anni.
Ma a Cernobbio, davanti a un pubblico selezionato di imprenditori e capi d’azienda, Renzi ha cominciato a cambiare toni. E Padoan, di ritorno dal G20 di Ankara, ha provato a quadrare una cifra: niente di eccezionale, ma ha fatto titolo proprio perché ha cambiato “narrazione”. E non è stato l’unica sostituzione rapida di spartito, negli ultimi giorni.
La prima Renzi l’ha operata quando ha posto come priorità per il 2016 la netta discesa del debito nel bilancio pubblico: quasi in sorpasso sulla “spending review”, cioè sul taglio della spesa corrente. Su ilsussidiario.net abbiamo provato a cogliere il senso della sterzata, ancora una volta in chiave di clash – “alla greca” – fra narrazione e realtà. Renzi è parso evidenziare la presa d’atto che senza un serio attacco al debito, la Ue concederà all’Italia ben poca della flessibilità sperata. Una riforma come il Jobs Act potrà essere spendibile per un report del Fondo Monetario, ma se non produce Pil, non serve a creare spazi nel bilancio: certamente non sui tavoli dei “ragionieri” di Bruxelles e dei governanti “falchi” del Nord Europa. Per di più concentrarsi sul taglio della spesa pubblica porta inevitabilmente a togliere domanda nel breve periodo (soprattutto nelle tasche di dipendenti pubblici che votano Pd, ma questo è un altro discorso). Quindi risale come parola d’ordine la riduzione del debito: il numeratore del famigerato “130%”.
Torna come priorità qualche operazione – o almeno quanche impegno “alla greca” – in modo tale che Ue e Bce permettano all’Italia di sforare in qualche maniera il 3% di deficit/Pil. Ma tagliare il debito – sul Sussidiario l’ha osservato Mario Deaglio – vuol dire comunque cercare mezzi una tantum presso le rendite finanziarie o addirittura i patrimoni degli italiani più abbienti: sarebbe completamente un’altra musica.
Anche dal “cambio d’abito” sulle tasse (più tagli a favore delle imprese, meno a favore delle famiglie) traspare una revisione in corsa delle combinazioni strumenti/obiettivi. Immaginiamo: sollecitare la domanda delle famiglie via sgravi fiscali non mostra e non promette gli esiti attesi sulla ripresa del Pil. Allora – starà pensando Renzi in versione “amerikana” – proviamo a fare supply side, ad agire dal lato dell’offerta: a sollecitare gli imprenditori a investire. Anzi: ad assumere, gonfiando le vele del Jobs Act e dei decreti attuativi appena varati. Può funzionare: addirittura può essere la via maestra da seguire puntandoci sopra il grosso delle munizioni fiscali. Può darsi che un rilancio reale dell’occupazione riaccenda quella la fiducia che in fondo gli 80 euro e dintorni non hanno mai ricostruito nell’Azienda-Paese. In ogni caso: parliamone, apertamente, approfonditamente, il più rapidamente possibile. Il governo ne parli, il Parlamento ne parli, le parti sociali ne parlino. Non è roba da “narrazioni” tardo-estive”, da talk show.
Non da ultimo le pensioni. Sono mesi che il ministro del Welfare, Giuliano Poletti, dice di voler introdurre un po’ di “flessibilità” in uscita. Brutalmente, ma con filo logico: fino a che gli over 55 restano ai loro posti, i ventenni non troveranno mai posto in azienda. Non c’è Jobs Act che tenga, si tratti di un giornale o di una Pmi, di una banca o di una multinazionale. Bisogna accelerare l’uscita, anche al costo di qualche penalizzazione, tutti se ne devono fare una ragione. Ieri il dietrofront, altrettanto brutale, ma con meno filo logico: “Scusate, ma non ci sono coperture” ha detto il ministero. Salvo essere nuovamente corretto dal premier in serata: La flessibilità in uscita arriverà “a mesi, a somma zero”. Nel frattempo i leader sindacali avevano avuto buon gioco a stracciarsi le vesti sulla retromarcia di Poletti, dimenticando di aver detto sempre no alle “pre-pensioni tagliate”(ed è probabile che dietro il retromarcia del golverno vi sia anche la preoccupazione di non disturbare troppo la Cgil, anima dell’opposizione interna a Renzi nel Pd, pericolosissima nei giorni decisivi per le riforme istituzionali).
Tasse e spese, consumi e investimenti, debito pubblico, lavoro e pensioni: c’è una sola “tavoletta” di politica economica che Renzi in questi giorni non abbia rinunciato a giocare, rovesciare, nascondere?
PS. Ieri sera, ore 18: “Per le imprese del Mezzogiorno il governo sta discutendo se inserire nella prossima legge di Stabilità un credito di imposta oppure di far proseguire solo nel Sud la decontribuzione per i nuovi assunti. Lo hadetto il presidente del Consiglio Matteo Renzi nel corso della registrazione del programma di RaiUno Porta a porta”.