Sui mercati finanziari è stato il peggior inizio d’anno da quando s’è conclusa la grande crisi. Non era difficile in realtà vedere le turbolenze in arrivo: l’Isis, la guerra al terrorismo islamico, Putin che proclama di nuovo la Nato come suo nemico principale, il collasso del Brasile, il rallentamento cinese, insomma i bagliori erano già nell’aria. Gli ottimisti sostengono che si tratta di aggiustamenti momentanei; chi si ostina a considerare le borse separate dall’economia reale, dei caciocavalli appesi al soffitto della “economia di carta”, si consola dicendo che i fondamentali in realtà sono buoni: gli Stati Uniti creano posti di lavoro (ne hanno persi 8 milioni nel 2008 e 2009, ne hanno prodotti 13,5 milioni dal 2010 a oggi) anche se il ritmo di crescita del Prodotto interno lordo non è elevato, l’Unione europea ha ripreso a muoversi sia pure a passo più lento degli Usa, e anche l’Italia, il vagone di coda, segue a distanza la locomotiva occidentale.



Questa analisi diffusa tra gli economisti accademici trascura alcuni fattori fondamentali che non sfuggono a chi manovra il denaro vero. Il primo è che la Cina ha un ruolo sempre più importante anche sui mercati finanziari, il secondo è che Pechino guida un’ampia serie di paesi in via di sviluppo, il terzo è che l’economia cinese è entrata in una fase nuova e questo segna un cambio di ciclo per l’intera economia mondiale.



Il grande balzo in avanti in Cina è avvenuto a partire da metà anni 90 sotto la spinta della globalizzazione e del ciclo espansivo nato negli Stati Uniti e amplificato proprio dall’apertura dell’immenso mercato asiatico. Allora s’è realizzato lo scambio ineguale tra il debito americano e il credito cinese. Durante la lunga recessione, Pechino ha fatto da boa di salvataggio: la sua crescita (con quella dell’America Latina e del resto dell’Asia) ha compensato la caduta della domanda nei paesi occidentali.

Adesso la Cina si trova di fronte alla necessità di passare dall’accumulazione a tutti i costi alla redistribuzione, la fabbrica mondiale deve creare servizi a tutti i livelli (a cominciare da quelli bancari e finanziari), deve costruire un welfare state, gestire una trasformazione generazionale non facile, riformare le sue istituzioni economiche e politiche. Il rallentamento della crescita è dovuto a fattori strutturali, i quali rendono sempre più difficile tornare ai ritmi di un tempo. Ciò crea anche problemi politici seri. Si era detto che è lo sviluppo a comprare il consenso e il partito comunista si rende conto che sarà più difficile gestire le nuove contraddizioni in seno al popolo, per usare una espressione di Mao.



Questo aggiustamento durerà a lungo, trascina con sé i paesi in via di sviluppo diventati sempre più dipendenti dal ciclo cinese e ha un esito tutt’altro che scontato. La Cina non sarà più lo sbocco garantito delle merci occidentali e nello stesso tempo cercherà di spingere al massimo il proprio export, svalutando il renminbi, per tenere su i giri del motore. Abbiamo già detto addio a tassi di crescita cinesi a due cifre, ma non è più garantito nemmeno quel 7% annuo che rappresenta l’obiettivo del governo, o meglio il punto di equilibrio economico-sociale.

Se le cose stanno così, chi farà da traino all’economia mondiale? Gli Stati Uniti da soli non sono in grado, l’Unione europea va avanti al ritmo di lumaca ed è quella destinata a soffrire di più. La ripresa, soprattutto nella zona euro, è stata tirata quasi completamente dalle esportazioni perché la domanda interna è stata compressa. Un po’ per necessità (bisognava ridurre l’eccesso di debiti pubblici e privati), in gran parte per scelta (la Germania ha risposto alla crisi puntando sull’export e tutti gli altri hanno cercato di seguirla, sia pur a distanza). Questo modello non funziona più, non funziona come prima nemmeno per l’economia tedesca, figuriamoci per le altre. Dunque, è arrivato per l’Europa il momento di aumentare la domanda interna.

Il cambio di fase che parte dalla Cina induce insomma le altre grandi economie a compensare il traino estero con quello domestico. Ciò vale meno per gli Usa che lo hanno già fatto (anche se non abbastanza per Paul Krugman e i neokeynesiani), mentre diventa un imperativo categorico per l’Eurozona e ripropone la questione tedesca. Intendiamoci, la Germania ha offerto uno sbocco per le merci italiane, francesi e spagnole, ma a questo punto deve fare molto di più seguendo le indicazioni del Fondo monetario internazionale e le raccomandazioni del G20. Berlino se ne rende conto, ma lo farà?

Se davvero siamo di fronte a un nuovo ciclo strutturale, il paradigma dell’austerità diventa un impaccio, anche se i conti con il passato non sono stati ancora saldati. E questo rende tutto maledettamente più complicato. I paesi europei hanno oggi debiti pubblici superiori al passato di venti, trenta, quaranta punti del Pil; le banche sono ingessate da titoli marci e prestiti incagliati; la Bce ha fatto il massimo, ma non abbastanza; gli investimenti, che sono la vera molla dello sviluppo, ristagnano ovunque; l’Europa non è percossa dalla carica di innovazioni che vediamo all’opera negli Stati Uniti.

Difficile capire il da farsi. Bisognerebbe che i governi dell’Eurozona prendessero atto della realtà e avviassero in modo ordinato e coordinato un rilancio degli investimenti e dei consumi con politiche fiscali espansive. Nulla del genere è all’orizzonte. A questo punto ciascuno cerca di fare da sé o sfuggendo alla regola del deficit, come la Francia e la Spagna, o a quella del debito come l’Italia, che vorrebbe rimettere in discussione il Fiscal compact. Le turbolenze sui cieli dell’Asia, dunque, rischiano di diventare una tempesta su quelli europei, non solo perché l’economia mondiale è sempre più interconnessa, ma per l’incapacità di reagire a quel che sta accadendo.