Sul mercato sta succedendo qualcosa di molto serio. L’altra notte, poco prima che aprisse la Borsa di Tokyo, il rand sudafricano ha perso il 10% di valore, il peggior calo intraday dal crollo di Lehman Brothers. In sé una notizia che non avrete letto da nessuna parte, anche perché la valuta sudafricana non è certo una delle grandi protagoniste monetarie mondiali, ma c’è un fatto da non sottovalutare e ce lo mostra il grafico a fondo pagina: il deprezzamento del rand è sempre stato un ottimo segnalatore di crisi passate. Ci vorrà dire qualcosa anche questa volta? È in atto una guerra valutaria su scala mondiale, tutti attaccano tutti attraverso la svalutazione: è il frutto marcio delle politiche di stimolo cominciate nel 2009 e in alcuni casi non ancora terminate.



Mentre il rand si schiantava, lo yen giapponese saliva ai massimi da un anno contro il dollaro, facendo saltare tutti i carry-trades legati a quel cross: c’è una sola spiegazione a quanto accaduto l’altra notte, ovvero che ci si attendeva una mossa svalutativa da parte della Cina durante il weekend che invece non c’è stata. In compenso, quando il mercato si stava schiantando in Cina si è intervenuti sullo yuan, tanto che nonostante il -5,3% di Shanghai, le Borse europee non si sono inabissate e Wall Street apriva in positivo. Ormai non è più libero mercato, è un casinò di Stato. Ed è proprio in queste situazioni di equilibrio estremamente precario che possono saltare fuori i cosiddetti “cigni neri”, ovvero quelle eventualità estreme e non troppo preventivabili che divengono detonatore di una crisi sottostante più grande.



Bene, nel weekend a mio avviso un cigno nero è comparso proprio nel cuore dell’Europa e vi spiego come. In Catalogna, infatti, il Parlamento regionale ha eletto come presidente Carles Puigdemont, mettendo fine a mesi di incertezza politica dopo le elezioni dello scorso 27 settembre. Puigdemont, già sindaco e presidente di un’associazione di leader locali separatisti, è stato eletto con 70 voti favorevoli, 63 contrari e 2 astensioni. Qualora i legislatori non fossero riusciti a eleggere un nuovo presidente entro la mezzanotte di domenica, la regione sarebbe stata chiamata nuovamente alle urne. Determinato a portare avanti l’agenda separatista di Artur Mas, leader della coalizione Junts pel Sì, il nuovo presidente ha affermato di voler rendere la Catalogna una nazione indipendente entro 18 mesi. «Anche se il candidato non è lo stesso, il programma lo è», ha ribadito Puigdemont dopo che nel 2013 aveva dichiarato che «gli invasori saranno espulsi dalla Catalogna», parafrasando le parole di un giornalista giustiziato durante il periodo franchista.



Di per sé non una novità eclatante, visto che la Catalogna, una delle regioni più ricche della Spagna, è attraversata storicamente da forti spaccature separatiste, che si sono accentuate durante i cinque anni in cui Mas ha governato la regione, a causa dell’implementazione delle riforme economiche a livello nazionale volte a contrastare la crisi. Di più, lo scorso 9 novembre la regione ha adottato una risoluzione indipendentista dichiarata unanimemente e unilateralmente incostituzionale dalla Corte suprema spagnola. Fin qui la cronaca, ora vediamo di approfondire. Questa rinnovata compattezza sul fronte separatista, unita al fatto che la Catalogna non dovrà tornare alle urne, potrebbe risultare molto utile al premier spagnolo Mariano Rajoy, il quale ora potrebbe utilizzare la rinnovata minaccia separatista per fare appello al Partito socialista per un’apertura al dialogo, dopo che le elezioni spagnole di fine dicembre si sono concluse senza un chiaro vincitore e senza una maggioranza di governo.

E le mosse in tal senso sono già cominciate, visto che sabato il leader del Partito Popolare in Catalogna, Xavier Garcia Albiol, ha scritto la seguente frase sul suo profilo Twitter: «L’emergenza di una nuova amministrazione pro-indipendenza sottolinea il bisogno immediato per un governo spagnolo forte e stabile che risponda alla sfida». Di più, intervistato dal Wall Street Journal, Andrew Dowling, docente di storia spagnola e catalana alla Cardiff University in Galles, ha rimarcato il fatto che «questo argomento potrebbe rafforzare la pressione di Rajoy sui socialisti e sugli altri avversari che sono però contrari all’autodeterminazione della Catalogna e aiutarlo a formare un governo di unità nazionale ed evitare nuova elezioni generali».

Ma attenzione, perché non solo politica e storiografia si sono mosse in questo weekend, anche le banche. In particolar modo Deutsche Bank, il cui report sul caso sottolineava come «l’incapacità di formare un governo regionale sarebbe un significativo passo indietro per il movimento indipendentista. Il mercato potrebbe salutare con favore uno sviluppo simile, ma l’impasse politica in Catalogna non aiuterebbe a risolvere l’ingorgo politico venutosi a creare a livello nazionale dopo il voto di dicembre. Per esempio, una pausa nel processo indipendentista ridurrebbe il senso di emergenza nazionale che potrebbe invece giustificare una collaborazione temporanea tra Pp e Psoe». Insomma, c’è aria di grosse koalition in salsa iberica e la conferma è arrivata domenica dalla conferenza stampa di uno dei più fidati alleati di Mariano Rajoy in seno al Pp, Fernando Martínez-Maillo, il quale ha detto chiaro e tondo che «una coalizione con oltre 200 parlamentari potrebbe essere la migliore risposta a quella che io chiamo una sfida alla sovranità spagnola. Ora non ci sono più scuse. Quando la nuova legislatura si aprirà mercoledì (domani, ndr), dovremo trovare un accordo tra tutti noi per un governo più ampio possibile che unisca i partiti principali, noi, il Pp e logicamente anche Ciudadanos, una delle cui finalità dovrà appunto essere difendere l’unità della Spagna».

Ma davvero siamo alla fase della “minaccia”? Davvero l’accordo raggiunto in Catalogna segna una pietra miliare e un salto di qualità della sfida indipendentista di Barcellona verso Madrid? A detta del vecchio premier dimissionario Artur Mas, sì. Ecco le sue parole dopo il passo indietro: «Puigdemont ha un’idea molto chiara del progetto per la nostra nazione ed è intenzionato a fare della Catalogna uno Stato». Il sopracitato Andrew Dowling è dubbioso al riguardo e sempre sul Wall Street Journal si è chiesto: «Davvero vogliono creare la loro autorità fiscale e altre strutture statali?». La risposta di Mas a questi dubbi è stata lapidaria: «Ignorate la retorica e le dichiarazioni, seguite le azioni». Ovvero, guardate a quale agenda sarà chiamato a sovraintendere Puigdemont.

Già, perché il nuovo governo catalano ha già pronto un piano politico di negoziazione con Spagna e Ue riguardo la creazione di un nuovo Stato catalano e questo presuppone i seguenti punti: la Catalogna dovrà porre in essere piani per la sicurezza e la difesa; ha bisogno di una sua Banca centrale; deve avere una nuova legge elettorale; deve espandere il potere della sua agenzia fiscale. E queste cose Puigdemont le ha ribadite in una dichiarazione al Parlamento catalano riunito in sessione plenaria subito prima del voto per la sua investitura tenutosi nel weekend, quindi il palco più politico e ufficiale possibile.

Ora, capite bene che per mia deformazione professionale non siano la sicurezza interna o la fiscalità a creare sensazione, bensì l’idea che la Catalogna dia vita a una sua Banca centrale. Cosa farà, si limiterà a controllare la stabilità dei prezzi e a far finta di non vedere le magagne delle proprie banche come Bankitalia o avrà la pretesa si battere moneta e operare sui tassi? Di più, la Catalogna manterrà l’euro o cambierà valuta? Capite da soli che queste variabili non sono un cigno, ma un elefante nero per la stabilità dell’eurozona, la quale ha già dovuto affrontare una crisi del debito nel 2011 che la stava quasi mandando in frantumi. Ricordate, inoltre, che la Catalogna pesa per il 20% del Pil spagnolo, quindi come faceva notare nel suo report Deutsche Bank, «se non si raggiungesse un accordo per la condivisione dello stock di debito tra Barcellona e Madrid, la proiezione della ratio debito/Pil iberica per il 2015 potrebbe passare da poco più del 100% al 125%», di fatto avendo un impatto devastante sui mercati e sugli spread. Oltretutto, questo prendendo in conto solo l’impatto meccanico del fatto, ma se per caso si arrivasse davvero allo strappo e non si raggiungesse un accordo, la Catalogna potrebbe rifiutarsi di pagare le liabilities che ha nei confronti di Madrid, ovvero ripudiare il debito verso lo stato centrale spagnolo.

Insomma, attenzione a cosa accade nel cuore dell’Ue e lontano dai palazzi di Bruxelles. Ho la certezza, in animo, che Barcellona non ce la farà mai, l’Ue e la Spagna non possono permettersi un precedente simile e useranno ogni mezzo, lecito o meno, per far deragliare del tutto il processo verso l’indipendenza. Ma resta la minaccia potenziale, soprattutto se qualcuno avesse intenzione o interesse a scatenare un po’ di tensione e instabilità in Europa, tale da rendere ancor meno di efficacie di quanto già non sia il Qe della Bce. Insomma, se il paradosso della rinnovata minaccia secessionista potrebbe rivelarsi benefico per la politica spagnola, incapace altrimenti di trovare un accordo per il governo della nazione, sul mercato potrebbe dare adito a speculazioni e non solo politiche. Nel frattempo, vediamo le prime mosse di Madrid.

Alla fine dello scorso settembre, quando mancavano pochi giorni al voto in Catalogna, una serie di furgoni blindati apparirono di fronte alla sede catalana della Banca di Spagna e subito si pensò a una confisca preventiva dell’oro lì detenuto, temendo la vittoria degli indipendentisti. La Banca centrale smentì e parlò di operazione di routine. Forse per capire quanta paura davvero ha Madrid del nuovo governo separatista, sarà meglio tenere d’occhio la sede della Banca di Spagna di Barcellona che le notizie che arrivano dai due Parlamenti.