Tra i tanti problemi quotidiani che realmente incidono sulla vita di persone reali e non sui profili virtuali dei social network troviamo in questi giorni la notizia di un’imminente vendita dell’ultimo pezzo buono della chimica italiana, di cui è ancora proprietario Eni. In questi giorni il Ministro Guidi ha confermato la notizia della trattativa di vendita del 70% di Versalis, controllata Eni che ha in proprietà gli impianti definiti industrialmente validi, a Sk Capital, un fondo di investimento con sede a New York. 



Almeno 6 mila persone sono interessate a questa scelta per il fatto di lavorare in uno dei diversi siti presenti ancora in Italia: Brindisi, Ferrara, Mantova, Novara, Porto Marghera, Porto Torres, Priolo Gargallo, Ragusa e Ravenna. Ma la portata della questione non è riducibile a questo dato, sia pur fondamentale. Ciò che è in gioco, non da ora, è il destino di un comparto del settore industriale nostrano che, nel cosiddetto miracolo italiano degli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, ha avuto un ruolo certamente controverso, ma comunque non privo di effetti positivi.



Sarebbe troppo lungo il racconto della storia della chimica nel nostro Paese, ma in sintesi si può dire che gli investimenti massicci fatti inizialmente hanno prodotto, positivamente, redditi diffusi, afflusso di tecnologie e conoscenze, legami internazionali importanti e, negativamente, problemi di inquinamento e squilibri imprenditoriali e territoriali a seguito delle crisi innescate dall’innalzamento del prezzo del petrolio a partire dagli anni ’70.

Per capire cosa stia accadendo oggi, non si deve assolutamente dimenticare che l’intervento di Eni per rilevare la gran parte degli impianti produttivi, allora sotto attacco della crisi e in gran parte ormai dismessi, fu il frutto di una scelta lucida e responsabile da parte della politica italiana: non abbandonare un presidio strategico per lo sviluppo del Paese, pur avviando un processo di ristrutturazione e riconversione produttiva e di bonifica dei terreni inquinati. È da notare che l’incidenza del costo della chimica per il bilancio di un colosso come Eni è stata sempre minima rispetto al volume degli affari conclusi nel mercato degli idrocarburi e, soprattutto, che ultimamente la scelta, lungimirante è stata quella di avviare investimenti nella nuova frontiera della chimica verde, cioè basata su materie prime naturali. 



In questo scenario, pochissimi anni fa Eni ha annunciato con giustificato orgoglio la nascita a Porte Torres di un nuovo soggetto, Matrica, frutto di una joint venture con un’industria italiana ad alto valore innovativo. E in quell’occasione sia i sindacati che le istituzioni locali avevano accettato forti sacrifici sul versante dell’occupazione. 

La decisione di vendere Versalis – pare per un prezzo irrisorio rispetto al solo valore patrimoniale in trattativa – a un fondo di investimento titolare finora di imprese di dimensioni molto inferiori a quelle italiane, con un capitale di gestione minimo e attraverso operazioni finanziarie di dubbia affidabilità, è di tale gravità da stupire e insospettire perfino il più convinto antindustrialista in circolazione.

Non si può francamente fare a meno di chiedersi: cosa c’è sotto? E soprattutto dove è il Governo che per curare gli importantissimi interessi di Eni non esita a usare tutte le armi diplomatiche a disposizione, ma che sulla vendita di Versalis si trincera dietro il paravento dell’autonomia aziendale dell’Eni?