Tutte le gazzette del mondo guardano alla Cina e all’immensità dei suoi problemi. E questo non da oggi. Anche alla recente conferenza di Bangkok sull’emigrazione (maggio 2015) che ha avuto come protagoniste fondamentali nazioni come la Malesia, la Cambogia, la Tailandia e il Vietnam il problema cinese è esploso con una forza imprevista. E pure pareva che la questione centrale delle economie acquatiche, come io le chiamo, ossia della Tailandia e del Vietnam, fosse in primis quello di regolamentare il flusso di migranti clandestini che giungono soprattutto dall’Indonesia per rifornire di forti braccia e forti polmoni i pescatori allevatori di gamberi di fiume e di gigli selvatici d’acqua, mentre per la Malesia e la Cambogia i flussi migratori interessano i lavoratori nelle piantagioni di olio di palma e di una industria tessile sempre meno arcaica e sempre più moderna. Ebbene, anche in quella sede il problema cinese – che disvela un calo delle importazioni – ha al suo centro un aumento continuo delle tensioni geopolitiche con tutti gli stati prima nominati. Il problema dominante non è solo economico, ma ormai in tutto il mondo anche quello del disordine e della paura geopolitica, ingredienti che di solito non allontanano le crisi.
Non parliamo poi del problema del crollo del prezzo del petrolio. Qui la Cina vede aumentare il consumo di carbone a scapito di quello del petrolio e dei suoi derivati e si pone in tal modo, visti i suoi volumi, al centro delle cause del crollo dei prezzi. Naturalmente ‘lArabia Saudita, com’è noto, fa la sua parte continuando a riversare sui mercati quantità in surplus dirette a rendere non redditizie sia le produzioni nordamericane, sia quelle russe, sia quelle iraniane che sono ancora di là da venire, ma non ancora per molto… così come quelle irachene che iniziano di già ad assumere il ruolo centrale che da sempre hanno svolto storicamente tra curdi e ora tra Isis e conflitti tribali.
Il crollo del prezzo – lo si ricordi una buona volta – è frutto del sistema di fissazione dei prezzi in mano alle cosiddette aspettative di mercato, ossia allo scambio non fisico ma fondato sulla speculazione di massa degli operatori finanziari. Sì, ecco che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi – tuttavia non riescono più a dominare gli gnomi à la Faust fuoriusciti dalle bottigliette delle aspettative che i traders hanno bene esposte dinanzi a sé, ma di cui spesso non possono farsene nulla, come dimostrano i fallimenti antideflazionisti delle banche centrali, salvo la Fed (ma per quanto?).
Ricordo qui che se dovessimo fissare il prezzo come un tempo – ossia sino a circa venti anni or sono – sulla base degli scambi fisici, ebbene il prezzo sarebbe assai più basso giungendo ai 3-4 dollari al barile. Infatti, la stagnazione secolare non solo è cominciata, ma è di già trasformata in recessione. Si guardi il prezzo del rame che gli operatori sanno essere l’indicatore fondamentale dell’andamento dei cicli delle materie prime: continua a scendere precipitosamente, nulla di buono facendo così presagire.
Insomma, il crollo delle commodities è alla base della deflazione mondiale sulla base degli andamenti disuguali dei cicli capitalistici. Nulla di nuovo per colui o colei che è così stupido o stupida da credere nella capacità autoregolativa del mercato. E con Carlo Cipolla sappiamo che gli stupidi sono sempre in maggioranza, ma faremo questo discorso un’altra volta…. La novità che tutto aggrava è il fatto che dopo l’unificazione monetaria e tecnocratica europea (l’unificazione algoritmica come l’ha ben definita Antonio Pilati in un saggio di prossima pubblicazione) si è aggiunta una causa istituzionale alle cause strutturali della deflazione. Esse sono devastanti su scala mondiale con la sola eccezione, com’è noto, degli Usa.
A questa deflazione strutturale se n’è aggiunta una di origine politico-tecnocratica frutto del dominio tedesco su tutta la macchina burocratica europea e sull’equilibrio di potenza, vista la castrazione della Francia. Un’emasculazione si è consumata sulle sponde della Libia è sui deliri neo imperiali non sostentati da mezzi acconci. Aggiungiamo il balbettio del Regno Unito che rinuncia a ogni leadership europea (sono lontanissimi i tempi di Brittain e di Blair…).
La mia tesi è proprio questa: l’intreccio tra la deflazione strutturale ciclica da commodities e da domanda interna insufficiente dei Brics su scala mondiale si incastra, si compone con quella politico-istituzionale che dopo il crollo dell’Urss delle imbelli classi politico tecnocratiche cosmopolite hanno costruito in Europa consegnandola alla Germania, sottovalutandone la potenza distruttiva nel sonno della socialdemocrazia tedesca e nel trionfo del filisteismo teutonico cattolico e luterano più vergognosamente nazionalista che farebbe vergognare Bonhoeffer e i ragazzi della Rosa Bianca.
Ma oggi non solo la storia non la sa più nessuno, ma non interessa a nessuno. Basta vedere in che università la maggioranza dei ragazzi in tutto il mondo persegue i propri studi anti-umanistici. Non è solo più la “mente nordamericana” a decadere come diceva Allan Bloom nel suo indimenticabile capolavoro, ma quella di tutti i figli degli oligarchi mondiali che non a caso hanno nel mito dell’Europa austera e nelle Business School che producono cloni antropoidi i loro strumenti di perversione.
La crisi da tutto questo scaturisce e per un bel po’ ristagnerà nelle pozzanghere della disuguaglianza. Non facciamoci illusioni e non scambiamo il rallegrarsi per un centesimo di crescita dei vari Pil nazionali dovuti a contingenti situazioni anti-cicliche per l’inversione di una situazione mondiale che è appena iniziata.