Come ogni fine anno, analisti ed economisti hanno avanzato le previsioni per i dodici mesi che sono appena cominciati: chi andrà bene, chi male, ma, soprattutto, i potenziali “cigni neri” che potrebbero apparire sui mercati e scompaginare le carte. Meno famosi delle “previsioni oltraggiose” di Saxo Bank sono i cinque tail risks che ogni anno MarketWatch presenta alla vigilia del Capodanno, ovvero gli eventi non preventivabili a freddo che potrebbero fare tremare Borse e investitori. Eccoli, brevemente, come riportati da Cnbc.



Il primo è il rinvio della presentazione del nuovo modello di iPhone (il 7 e il 7-Plus), prevista a settembre. Difetti nel design o ritardi della produzione in Cina potrebbero costringere Apple a rinviare il lancio dell’iPhone, che traina i profitti del gruppo. Un evento del genere minerebbe l’intero settore tecnologico, provocando un crollo delle borse. Secondo, un fondo sovrano potrebbe liquidare i suoi asset a causa del crollo dei prezzi del petrolio. L’Arabia Saudita, per esempio, ha cominciato a tagliare la spesa pubblica, ma per uno Stato è più facile attingere alla liquidità del proprio fondo sovrano che tagliare i salari. In tutto, i fondi sovrani hanno asset del valore di circa 3.400 miliardi di dollari: se i guai di un Paese dovessero aggravarsi a causa di nuovi ribassi dei prezzi del petrolio, il suo Fondo sovrano potrebbe essere costretto a vendere gli asset, assestando un brutto colpo alle Borse.



Terzo, le dimissioni di Mario Draghi sarebbero una disgrazia per i mercati, poiché il presidente della Bce è il banchiere centrale più rispettato dai trader e il suo mandato scade nel 2019. Ma se il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, dovesse dare le dimissioni, Draghi potrebbe sentirsi in dovere di tornare in Italia per rimettere a posto la situazione. Oppure, logorato dalla guerra di posizione che gli muove la Bundesbank, potrebbe decidere di prendere il posto di Christine Lagarde, il cui mandato scade l’estate prossima, alla guida del Fondo monetario internazionale. Sulla poltrona più alta della Bce potrebbe allora sedersi il numero uno della Bundesbank, Jens Weidmann, e immediatamente la crisi dell’eurozona tornerebbe ad acutizzarsi, con tutte le prevedibili conseguenze negative sui mercati. Quarto, una delle tante start-up tecnologiche valutate più di 1 miliardo di dollari, i cosiddetti unicorni, alla prova dei fatti potrebbe sgonfiarsi. Se i modelli di business di Airbnb o Uber possono giustificare queste mega valutazioni, non si può dire lo stesso di tutti gli altri 143 unicorni: nel momento in cui venisse scoperto il bluff di un paio di loro, le Borse se la vedrebbero brutta.



Quinto e ultimo, la pace in Siria sarebbe una vera catastrofe per i mercati. Il motivo è semplice: il prezzo del petrolio crollerebbe fino a 10 dollari al barile, portando sull’orlo della bancarotta molti Paesi produttori e riducendo drasticamente i profitti dei gruppi petroliferi. E anche se appare molto improbabile che la pace venga raggiunta al tavolo delle trattative, se il presidente Bashar al-Assad fosse costretto con la forza a lasciare la Siria, lo Stato islamico potrebbe essere sconfitto rapidamente dall’azione combinata della Russia, delle forze locali e dei Paesi occidentali. Una volta crollato in Siria, lo Stato islamico verrebbe facilmente ridimensionato o eliminato del tutto anche dalla Libia e così la produzione di petrolio salirebbe ulteriormente, senza contare il ritorno sul mercato dell’Iran post-sanzioni. Come conseguenza di questi eventi, il petrolio a 10 dollari non sarebbe affatto un’ipotesi da fantascienza.

Immagino che anche voi, come me, troviate la terza ipotesi la più interessante per ovvie e dirette ragioni, ma io voglio delinearvi un altro scenario, altrettanto da “cigno nero”, ma con conseguenze che sarebbero geopoliticamente enormi, qualcosa di senza precedenti. Guardate il primo grafico a fondo pagina, ci mostra come lunedì il rublo abbia toccato il suo minimo storico sul dollaro e, dipendendo dalla traiettoria di prezzo del petrolio, con l’anno nuovo il deprezzamento potrebbe inasprirsi, tanto più che anche le rinnovate sanzioni occidentali potrebbe fungere da accelerante. Ora, al netto del fatto che se si arrivasse in area 75 la Banca centrale russa non potrebbe continuare con la sua linea di non interventismo, vediamo tre proiezioni curate da Goldman Sachs in base a tre diversi prezzi del barile rispetto al deficit russo.

Con la valutazione attorno a 35 dollari, il rublo andrà in area 72 sul dollaro e l’inflazione sarebbe a circa il 6% alla fine del 2016. Con il prezzo a 30 dollari al barile, il deprezzamento del rublo potrebbe arrivare a 77, circa il 10% meno del livello attuale ed entro la fine dell’anno l’inflazione russa potrebbe essere al 6,7%. Infine, con il barile a 25 dollari, il rublo potrebbe arrivare nell’area mediana degli 80 e l’inflazione il prossimo dicembre potrebbe attestarsi attorno all’8%.

Paradossalmente, le previsioni di Goldman Sachs appaiono quasi ottimistiche, visto che la Banca centrale russa ha previsto un risk scenario in base al quale il prezzo del petrolio rimarrà attorno ai 35 dollari al barile nel 2016 e in tale condizioni prevede una contrazione del Pil del 5% e un’inflazione tra il 7% e il 9% già oggi. Ma c’è di più, perché il budget federale russo per il 2016 prevede il barile a 50 dollari e in questo modo il deficit sarebbe al 3%, ma se soltanto quel numero calasse di 10 dollari al barile, la posizione fiscale di Mosca peggiorerebbe per un tasso pari allo 0,7% del Pil. Se per caso – scenario tutt’altro che peregrino – il barile arrivasse poi a 30 dollari, la questione diventerebbe davvero seria, visto che il deficit arriverebbe al 4,4% del Pil: essendo il budget per l’anno appena iniziato calibrato sul prezzo del petrolio a 50 dollari, la posizione fiscale peggiorerebbe del -4,4% del Pil, un gap significativo che diventerebbe il secondo (in negativo) degli ultimi 20 anni, essendo il peggiore il 6% raggiunto nel 2009.

Ma a peggiorare l’outlook fiscale russo ci pensa quel che vedete nel secondo grafico, ovvero le peripezie di Vnesheconombank (Veb), la banca statale più colpita dalle sanzioni occidentali e che siede su qualcosa come 15 miliardi di debito in valuta estera, situazione quest’ultima peggiorata proprio dalla svalutazione del rublo. Già oggi, Veb potrebbe aver bisogno di un salvataggio statale che potrebbe arrivare a costare fino a 18 miliardi di dollari e, nonostante fino a oggi sia stata il veicolo con cui Putin ha assorbito gli shock esogeni e non dell’economia, il fatto che il suo stato patrimoniale sia più che triplicato dal 2009 a oggi non depone a favore di una criticità asistemica.

 

 

Sempre dal 2009 a oggi, la Veb ha speso qualcosa come 8 miliardi di dollari per finanziare gli accordi che hanno permesso a un investitore anonimo di comprare alcuni impianti per la lavorazione dell’acciaio in Ucraina e garantire che questi continuassero a operare e, come se questo non bastasse, sui bilanci dell’istituto gravano anche i costi dei giochi invernali di Sochi dello scorso anno, costati 50 miliardi di dollari (i più costosi di sempre), visto che Veb è di fatto in controllo di hotel, resort e altri complessi per 200 miliardi di rubli, ma che portano con sé solo perdite. E se il grafico a fondo pagina ci mostra l’estensione delle sofferenze di Veb nella prima metà di quest’anno, le perdite che l’istituto potrebbe patire su progetti voluti direttamente dal Cremlino potrebbero raggiungere 1,2 triliardi di rubli, di fatto quasi metà del deficit di budget atteso per il 2016.

Inoltre, nei prossimi anni Veb deve andare incontro a scadenze sul debito pari a 7,3 miliardi di dollari, il tutto avendo un’unica fonte di finanziamento: lo Stato. E a mettere ancora più in allarme sono le parole dell’ex ministro delle Finanze russo, quell’Alexei Kudrin uscito di scena nel 2011 dopo uno scontro con l’allora Presidente, Dmitry Medvedev, a detta del quale «la situazione dell’economia russa non è affatto buona. L’inflazione nel 2016 sarà di circa 150 punti base superiore alla previsione ufficiale del 6,4% e con il prezzo del petrolio messo a budget preventivo a 50 dollari al barile, la Russia potrebbe essere costretta a significative riduzioni della spesa per molte industrie o all’aumento della tassazione».

Perché sono importanti le parole di Kudrin? Perché stando a rumors sempre più insistenti sul mercato, starebbe per tornare nella compagine di governo per evitare che la recessione russa si avviti e si trasformi in qualcosa di peggiore. Stando a un funzionario russo citato sotto anonimato da Bloomberg mercoledì, «l’ex ministro Kudrin avrebbe incontrato privatamente sia il presidente Vladimir Putin che Dmitry Medvedev la scorsa settimana per discutere i piani del suo rientro nell’esecutivo con un ruolo economico di primo livello. Al momento, però, non sarebbe stata avanzata nessuna proposta formale». Per Tim Ash, capo del dipartimento mercati emergenti di Nomura a Londra, «i mercati apprezzerebbero molto il ritorno di Kudrin al governo, perché questo verrebbe letto come un passo decisivo verso un serio consolidamento fiscale e verso quelle riforme strutturali così necessarie». Una mossa, quella del ritorno di Kudrin, che sembra svelare un timore crescente a Mosca, ovvero il fatto che il possibile deterioramento dello stato di salute dell’economia possa portare a malcontento tra la popolazione, ancora oggi quasi plebiscitariamente favorevole a Vladimir Putin e alla sua leadership.

Così un alto funzionario governativo russo, anch’egli coperto dall’anonimato, ha descritto ieri la situazione in atto a Bloomberg: «Il governo ha ancora pochi mesi prima che il deterioramento delle condizioni economiche cominci ad alimentare tensioni sociali». La mia speranza è che l’agenda Usa non si basi su questo scenario.