Due giorni fa su queste pagine ci auguravamo che Matteo Renzi e Mario Draghi si parlassero, ma non tanto per difendere interessi italiani sotto attacco. Posizioni che del resto il presidente della Bce non potrebbe mai riconoscere come proprie (e infatti nel 2011 le disconobbe duramente non appena designato numero uno dell’Eurotower). Ci sembrava invece che fra i due italiani più importanti sul turbolento scacchiere Ue si fossero accentuate nelle ultime settimane alcune convergenze oggettive nella dialettica sempre più rigida con l’Europa germanocentrica: sempre più Berlino-dipendente anche nello snodo di Bruxelles.



Non è un caso che proprio alla vigilia della prima riunione 2016 del consiglio Bce, il presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker, abbia abbassato i toni polemici verso il premier italiano. Al di là della rispettive retoriche, il rischio di delegittimazione era alla fine più forte per il discusso ex premier lussemburghese (e per la sua domina tedesca) che per Renzi. Ma prima ancora che Draghi prendesse la parola – ieri a metà giornata a Francoforte – un altro momento mediatico aveva contribuito a collocare il “caso Italia” in una prospettiva più ampia rispetto allo scontro personale Renzi-Juncker.



In un’intervista concessa al Corriere della Sera, la commissaria Ue all’Antitrust, la danese Margrethe Verstager, è stata insolitamente incalzata da continui interrogativi sulla sintonia operativa fra Ue e Bce: riguardo il quale Verstager ha ammesso la diversità di approcci, competenze, strumenti. Il tema concreto era il progetto di “bad bank” italiana: cioè ciò che è o non è “aiuto pubblico” in Europa secondo le cosiddette “regole” richiamate proprio ieri anche dal falco tedesco Wofgang Schauble. In filigrana di un’intervista ben calibrata nei toni fra Italia ed Europa, non è stato comunque difficile scorgere il malessere – con tutta evidenza riconducibile a Draghi – riguardo la non-comunicazione fra politica monetaria (Francoforte) e politica fiscale (Bruxelles).



L’Unione bancaria – com’era prevedibile – si sta rivelando il terreno di una sperimentazione difficile: contando anche la forte autonomia con cui la francese Daniele Nouy sta interpretando la vigilanza creditizia, formalmente in capo al presidente Draghi. Su questo sfondo la “bad bank” italiana – oppure la gestione di future risoluzioni bancarie – è stata promossa da questione tecnica locale del solito Paese mediterraneo, a questione politico-economica di alto livello sul confronto interno alla Ue/Eurozona riguardo gli obiettivi e i mezzi per imboccare la via della ripresa.

Ha quindi sorpreso solo in parte la franchezza di Draghi in conferenza stampa nel difendere la propria linea espansionista. Nell’affermare recisamente che “i tassi resteranno a lungo bassi”. E che “in marzo la politica mionetaria sarà rivista”, benché review non sia sinonimo stretto di “cambiamento”: in concreto di allargamento/allungamento del Quantitative easing dell’euro. 

Le indiscrezioni saranno più o meno esatte nel ricostruire la seduta del board. Ma difficilmente Draghi avrebbe potuto esprimersi nei termini in cui si è espresso se non avesse avuto dalla sua la maggioranza dei 19 governatori dell’euro. E dopo che il presidente francese Hollande ha denunciato pubblicamente “l’emergenza” in cui versa la Francia e la necessità di un intervento immediato da 2 miliardi, non è difficile capire che dietro la guasconeria di Renzi e la fredda oratoria di Draghi vi sia una “maggioranza silenziosa”. Uno schieramento di governi e banchieri centrali più concorde sulla necessità di accantonare l’intransigenza tedesca contro il rischio-deflazione e le nuove incognite su un 2016 che – nelle attese – avrebbe dovuto segnare la definitiva uscita dell’Europa dalla crisi più lunga.

Non ha stupito neppure che Draghi si sia consentito di segnalare che “le banche italiane presentano livelli di accantonamenti sulle sofferenze pari a quelle degli altri paesi europei”. Che non esiste dunque una crisi bancaria sistemica in Italia; e che – più in generale – l’Italia non può essere trattata diversamente da altri sistemi bancari europei che si sono sorretti grazie a sostenziosi aiuti di Stato.

Le Borse – proverbialmente – hanno festeggiato. Probabilmente non durerà molto e farà comunque arricciare il naso a più di qualcuno il prosieguo di un pericoloso gioco a rimpiattino fra hedge fund e banchieri centrali. Però – a differenza della collega Janet Yellen – che ha cominciato a fare un po’ di politica sotto inequivocabile dettatura dei democratici Usa nell’anno delle presidenziali – Draghi ha riassunto un profilo politico proprio, scalando verso l’alto la confrontation con Berlino e Bruxelles. Non c’è dubbio che Renzi – oggettivamente – gli abbia scaldato la pista. Ricevendo in cambio un sobrio assist: certamente alle sue banche nazionali. Che dal 2006 al 2011, peraltro, sono state vigilate dallo stesso Draghi: il quale, ovviamente, non può gradire bocciature neppure postume.