Chi si ricorda ancora del romanzo di Archibald Joseph Cronin “E le stelle stanno a guardare” del lontano 1935? Descriveva i cambiamenti della società di un paesotto del bacino carbonifero del Nord della Gran Bretagna nel periodo tra l’inizio del secolo scorso e la fine della Prima guerra mondiale. Ne sono stati tratti due film e due romanzi televisivi (quello inglese di ben 16 puntate). Mi è tornato in mente leggendo le analisi delle turbolenze sui mercati della settimana scorsa.
La più curiosa è quella di un noto economista e fisico russo, Vladimir Aleveevich Belkin, autorevole componente dell’Accademia delle Scienze. L’analisi è pubblicata nell’ultimo numero nella rivista scientifica “Chelyabinsk humanities”. Belkin è da tenersi in considerazione perché predisse, con anni di anticipo, sia la crisi del 2008 che quella del 2014. Ora ne vede una nel 2023-24, ma non necessariamente collegata con le Olimpiadi a Roma (sempre che vadano in porto). Belkin crede che le stelle siano un potente ausilio ai modelli econometrici. Coniugando econometria con astrofisica è il padre di quella che lui chiama “eliobiologia”. Ha ricostruito la storia economica dal 1867 al 2014 in base ai movimenti solari e individuato una forte correlazione tra detti movimenti e la tempistica delle crisi economiche. Quindi le stelle non stanno a guardare, ma incidono, a suo avviso, su economia e finanza.
Con grande rispetto per Belkin e la “eliobiologia”, la mia cultura illuministica mi fa più credere nella frase dello shakespeariano Cassio a Bruto: “L’errore, caro Bruto, non è nelle nostre stelle, ma in noi stessi”. Quindi, le determinanti e le soluzioni delle crisi non dipendono dagli astri, ma da ciò che facciamo noi, uomini e donne.
La crisi aggravatasi nelle ultime settimane, e in parte sanata o almeno calmierata alla vigilia del fine settimana, ha numerose determinanti, tutte derivanti delle politiche pensate e attuate da uomini e da donne. Molte di queste determinanti vengono doppiamente da lontano – le politiche a lungo termine della seconda potenza mondiale (la Cina) e i nodi in cui si sono avviluppate e che incidono sul tasso di cambio e, quindi, sui flussi e sui deflussi di capitale. Noi europei possiamo farci poco o nulla. Possiamo fare molto poco su altre determinanti che vengono da lontano: il difficile aggiustamento economico dell’America Latina (analizzato la scorsa settimana su queste pagine) e le tensioni inerenti alla campagna elettorale negli Usa (alcuni dei cui temi, ad esempio quelli della regolazione dei mercati finanziari, pur ci toccano da vicino).
Ci sono, però, determinanti europee e italiane su cui, volendo, possiamo incidere più o meno direttamente. Tra quelle europee, la maggiore è l’incompiutezza della “unione bancaria” e il modo tra il goffo e l’inconsapevole con cui abbiamo accettato il regolamento sul bail-in . Siamo lo Stato il cui Parlamento ha più velocemente ratificato il pertinente accordo inter-governativo anche se, accantonata la garanzia europea sui depositi in conto corrente, l’unione bancaria è diventata un instabile sgabello a due gambe invece che un saldo sgabello a tre gambe. Avremmo potuto negoziare un rinvio del regolamento bail-in sino al completamento dell’unione bancaria. Invece, abbiamo preferito mostrare i muscoli e perder tempo (e faccia) in liti da cortile.
Ne avevamo tanto più titolo in quanto il sistema bancario italiano è afflitto da scarsi margini di profitto, oberato da oltre 200 miliardi di sofferenze e con il divieto di costituire una bad bank assistita dalla garanzia dello Stato, in un contesto in cui il bail-in non consente più aiuti pubblici se non dopo che azionisti, obbligazionisti e depositanti per l’importo superiore a 100 mila euro ci abbiano messo del loro per risanare i conti dopo la decisione di procedere alla risoluzione della banca.
Avremmo dovuto anche e soprattutto perché le banche italiane non hanno solamente concesso prestiti agli “amici degli amici” con istruttorie pilotate, ma hanno soprattutto acquistato titoli di Stato. In breve, se saltano grandi banche, subisce un bel capitombolo il debito pubblico e l’Italia si trova costretta a negoziare l’insolvenza oppure a mendicare aiuti europei e avere la politica economica commissariata, mentre le stelle stanno a guardare.
Non credo che si sia afferrata la gravità del pericolo. Il resto del mondo, soprattutto il resto d’Europa, sa che il nostro debito pubblico viaggia verso il 140% del Pil – livello non sostenibile se l’economia cresce rasoterra. Il resto del mondo è ben consapevole che i programmi di governo non ne contemplano che un ridimensionamento minimale. Il resto del mondo è anche cosciente che uno scontro aperto tra Ue e Italia sul debito sarebbe visto come un attacco politico. Pochi iper-ottimisti pensano che rispetteremo l’impegno assunto con la ratifica a tempo di razzo del Fiscal compact di giungere al pareggio di bilancio (già rinviato da due anni) dal prossimo esercizio di bilancio (ossia quello del 2017) e di effettuare una drastica riduzione del debito pubblico di almeno un 20esimo l’anno per passare dall’oltre 130% del Pil al 60%.
Data l’elevata pressione tributaria (gli italiani lavorano per pagare il fisco sino al 20 giugno di ogni anno), è difficile ipotizzare aumenti ulteriori di tasse e imposte, quindi il Fiscal compact comporta una drastica riduzione della spesa, meglio se dopo una rigorosa revisione. Ma nominiamo e cacciamo con facilità, e speditezza, i “commissari” a tale revisione.
Questi elementi spiegano perché le nostre banche siano sotto attacco. Un attacco alle banche è (non molti ne sono consapevoli) un attacco al Tesoro (i cui titoli riempiono i loro attivi).
Negli ultimi giorni la tempesta si è calmierata quando, dopo la sessione del Consiglio della Banca centrale europea, il suo Presidente ha annunciato nuove misure stimolative da marzo. La stampa (e non solo) ha intonato coretti a Cappella a San Mario Draghi analoghi a quelli che si cantano a Napoli in onore di San Gennaro. “Felice il Paese che non ha bisogno di eroi”. Diceva il Galileo di “Vita di Galileo” di Bertolt Brecht. Mentre le stelle stanno a guardare.