Se fosse per me, il Nobel all’economia lo darei al Papa. Questo non, ovviamente, per l’elaborazione di nuove teorie che consentano più sofisticati calcoli previsionali, ma per il genio profetico che si può ben dire anticipa fatti che poi emergono alla considerazione di tutti. Prendiamo una delle sue frasi più incriminate, che ha suscitato vivaci reazioni nei tradizionalisti cattolici e affini di mezzo mondo (i vari “teocon”, “atei devoti”, ecc.), ponendo in questione il liberalismo: “Quest’economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione […]. Abbiamo dato inizio alla cultura dello scarto che addirittura viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono sfruttati, ma rifiuti, avanzi” (Evangelii Gaudium, 53).
Per rendersi conto di questo fenomeno nuovo che siamo riusciti a creare, tra i tanti esempi, basta limitarsi guardare ai migranti: chi meglio della nostra Europa (intendo ovviamente l’apparato amministrativo, non la gente comune) ci ha mostrato ciò? Il tratto del Mar Egeo che collega le coste turche all’isola di Kos, uno dei “tragitti della speranza”, continua a seppellire vittime. Chi oltre al mare si preoccupa per loro? Mentre accade questo la Danimarca avanza la proposta di espropriare beni e valori dei migranti per ripagare il diritto di asilo loro concesso, tanto gli “avanzi” non hanno voce in capitolo per definizione.
Durante la conferenza stampa dello scorso novembre al ritorno dalla Repubblica Centrafricana, il Pontefice si è espresso sulle guerre con parole decise e disarmanti: “Le guerre vengono per ambizione […] sono un’industria! Nella storia abbiamo visto tante volte che un Paese, se il bilancio non va bene… “Mah, facciamo una guerra!”, e finisce lo “sbilancio”. La guerra è un affare: un affare di armi. I terroristi, fanno loro le armi? Sì, forse qualcuna piccolina. Chi dà loro le armi per fare la guerra? C’è lì tutta una rete di interessi, dove dietro ci sono i soldi, o il potere: il potere imperiale, o il potere congiunturale… Ma noi, da anni stiamo in guerra e ogni volta di più: i pezzi sono meno pezzi e diventano più grandi… E cosa penso io? […] Che le guerre sono un peccato e sono contro l’umanità, distruggono l’umanità, sono la causa di sfruttamenti, di traffico di persone, tante cose… Si deve fermare“.
Queste parole sono di colpo risuonate nella mia mente quando ho letto l’ultimo rapporto di Amnesty International sulla fornitura di armi allo Stato islamico: l’associazione ha catalogato oltre 100 diversi tipi di armi e munizioni provenienti da almeno 25 Paesi che l’IS sta usando in Iraq e in Siria per compiere le sue stragi. La maggior parte delle armi è stata presa dai depositi militari iracheni, a loro volta ben riforniti tra gli anni Settanta e Novanta dagli Usa, dalla Russia e dagli altri Paesi dell’ex blocco sovietico. La guerra tra Iran e Iraq (1980-1988) – rileva ancora Amnesty International – è stata un fattore determinante per lo sviluppo del mercato globale delle armi, che oggi vale miliardi di dollari.
Anche il lavoro entra spesso nelle considerazioni del Papa a vari livelli: “Il lavoro è una necessità, è parte del senso della vita su questa terra, via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale. […]. L’orientamento dell’economia ha favorito un tipo di progresso tecnologico finalizzato a ridurre i costi di produzione in ragione della diminuzione dei posti di lavoro, che vengono sostituiti dalle macchine. È un ulteriore modo in cui l’azione dell’essere umano può volgersi contro se stesso. […] In definitiva i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani. Rinunciare ad investire sulle persone per ottenere un maggior profitto immediato è un pessimo affare per la società” (Laudato si’, 128).
Sulle preoccupazioni suscitate dall’impatto delle nuove tecnologie sul lavoro ho già avuto modo di dire la mia, in un precedente articolo. Consapevole di espormi a tutte le possibili obiezioni progressiste e forse di andare contro la storia, qui aggiungo solo un fatto di cronaca. “RoboHub”, la maggiore comunità scientifica internazionale degli esperti di robotica, ha stilato un elenco di 25 donne che si sono distinte nel progresso del settore, tra cui compaiono due studiose italiane, delle quali vado personalmente fiero (non senza un pizzico di invidia, lo ammetto!), come penso l’intera nazione.
Una di esse (Barbara Mazzolai, Istituto Italiano di Tecnologia di Genova) ha progettato robot ispirandosi al mondo vegetale, per non limitarsi all’imitazione del mondo umano. La seconda (Cecilia Laschi, Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa) progetta robot costruiti con materiali flessibili ispirandosi al polipo marino e dichiara: “Immagino umanoidi che faranno da assistenti personali agli uomini, sia facilitando il loro lavoro che sostenendoli in casi di malattia e disabilità” (La Stampa, 22/12/2015). Dove finirà il caro giardiniere dal pollice verde che cura le piante e parla con loro, per ora senza sentirsi rispondere? O, se non c’è il famigliare, almeno il classico collaboratore domestico? Con la diffusione dell’intelligenza artificiale, si stima che negli Usa entro il 2025 si perderanno circa 9 milioni di posti di lavoro, tra commercio, costruzioni e servizi alle imprese, dove l’innovazione è destinata a incidere di più.
Si potrebbe allungare la lista, ma ho voluto soltanto focalizzarmi su questi punti, profetici, come dicevo all’inizio. Alle spalle il Papa non ha complicati sistemi di calcolo, né teorie economiche particolarmente innovative. Semplicemente ha un cuore che pensa. Per questo è da Nobel.