Ci siamo. Stando a quanto dichiarato dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, questa settimana il governo introdurrà misure per favorire la cessione dei crediti deteriorati delle banche italiane. Insomma, al Consiglio dei ministri ci sarà un insieme di misure relative al sistema bancario che dovrebbero comprendere un’autoriforma del credito cooperativo. E l’Europa, cosa dice? Stando al portavoce dell’Antitrust europeo, domani a Bruxelles la commissaria alla Concorrenza, Margarethe Vestager, incontrerà proprio il nostro ministro dell’Economia per discutere l’accordo sulle misure per gestire i crediti in sofferenza, l’ormai mitica bad bank. Stando alle fonti dell’Ue, il nodo non sarebbe rappresentato dai prezzi ai quali verrebbero ceduti questi crediti deteriorati, ma sul come le garanzie pubbliche a queste operazioni verrebbero concesse a «condizioni di mercato». Punto su cui «non si può dire niente», ha replicato Padoan a una domanda sulle indiscrezioni stando alle quali l’Ue, nel negoziato sulla “bad bank leggera” italiana, abbia fissato una soglia di 40 miliardi sulle garanzie ai crediti in sofferenza.



La proposta italiana, infatti, non è uno schema tradizionale di bad bank, ma una sorta di “ombrello” statale che si apre sui non performing loans per facilitarne lo smaltimento, per questo l’Antitrust europeo vuole essere sicuro che il prezzo delle garanzie rispecchi il prezzo di mercato, cioè le banche che acquisteranno i non performing loans devono pagare lo stesso prezzo che applicherebbe un altro attore sul mercato.



Fin qui la cronaca, poi però tocca prendere atto della realtà. Anzi, di alcune realtà. La prima, Padoan sa che qualcuno vuole farlo fuori politicamente. Lo si evince dalle ultime dichiarazioni rilasciate a Davos prima di tornare in patria. Parlando alla conferenza stampa di chiusura del World Economic Forum ha infatti ribadito che il sistema bancario italiano «è solido» e che i fondamentali sono più forti di quanto pensi il mercato, tanto che sul crollo dei titoli delle banche italiane ha pesato una «gestione della comunicazione poco accorta da parte della vigilanza Bce». Poi, la perla: a proposito delle perdite arrivate al 50% su alcuni titoli, Padoan ha spiegato che a causa di quell’errore «c’è stata una redistribuzione della ricchezza». Padoan sa che non mangerà la colomba come ministro, anche perché il suo profilo politico è quello perfetto da capro espiatorio di una situazione esplosiva, sembra tratteggiato dalla penna di Pennac. Padoan, di fatto, è stato lasciato solo dal governo, Matteo Renzi cerca sempre meno di accostare il proprio nome a quello del ministro e gioca una partita in solitaria: non a caso, l’unico uomo che ha citato come sorta di salvatore della situazione è stato l’onnipotente Mario Draghi, ovvero parte di quell’establishment europeo che Padoan cerca di incolpare per le montagne russe della scorsa settimana. E lo stesso Draghi che, intervistato a Davos dal direttore del Financial Times, ha di fatto detto che le autorità italiane non hanno capito quanto scritto sull’informativa relativa alle sofferenze, scatenando esse stesse il panico e versando sangue in un tratto di mercato dove gli squali si annidano da sempre.



Classico esempio di scaricabarile, qualcuno ne uscirà a pezzi: e l’unica certezza è che non sarà Draghi. Ma ci sono cose che non vi dicono sulle banche italiane e che invece sono molto interessanti per capire come il cosiddetto “capitalismo di relazione” o crony capitalism in inglese sia il cancro che sta divorando da decenni il sistema economico di questo Paese irriformabile. Ricorderete come vi abbia detto che prima della crisi Lehman il livello delle sofferenze delle banche italiane fosse a 41 miliardi contro i 200 (incagli esclusi) di oggi, un aumento che è abbastanza “naturale” in un contesto di recessione che vede le aziende e le famiglie patire la crisi e quindi aumentare la loro incapacità di onorare il debito contratto.

Pensavo, come voi, si trattasse soprattutto di piccole e medie aziende, la spina dorsale dell’economia italiana ma anche quelle che patiscono maggiormente gli shock a livello di capitale e finanziamento, soprattutto poi se hanno la disgrazia di lavorare con la Pubblica amministrazione e magari vantano crediti da anni. E invece no e ce lo dice l’ottimo report preparato dal Centro studi di Unimpresa, dal quale scopriamo che le sofferenze delle banche sono legate ai grandi prestiti non rimborsati: il 70% dei finanziamenti non ripagati da famiglie e imprese si riferisce, infatti, a crediti superiori a 500mila euro. Sul totale delle sofferenze pari a 201,1 miliardi di euro, 141,4 miliardi sono relativi a finanziamenti oltre il mezzo milione di euro erogati ad appena 32.608 soggetti, il 2,63% dei clienti “problematici” degli istituti; 25,5 miliardi di sofferenze sono a carico di soli 579 soggetti, lo 0,05% del totale. Sempre stando al rapporto intitolato “Sofferenze bancarie divise per dimensione dei prestiti”, sul 97% dei clienti (più di 1 milione di soggetti), che hanno prestiti da 250 euro a 500mila euro, pesa solo il 29% delle sofferenze (52 miliardi).

Stando all’analisi dell’associazione, basata su dati della Banca d’Italia aggiornati a novembre 2015, il 70,35% delle sofferenze delle banche, cioè 141,4 miliardi su 201,1 miliardi complessivi, è relativo a finanziamenti superiori a 500mila euro. Ad appena il 2,63% dei clienti (32.608 soggetti, sia imprese sia famiglie, su un totale di 1.240.410 clienti problematici) è riconducibile il 70,35% delle sofferenze bancarie (141,4 miliardi). Insomma, in un Paese di oltre 60 milioni di abitanti e in un’economia basata sulle Pmi, appena 32mila soggetti fanno capo a una montagna di 141 miliardi di sofferenze. Non vi viene il dubbio che ci siano molti prestiti e fidi allegri verso amici degli amici? Non vi fa un filino saltare i nervi il fatto che non stiamo parlando di piccoli e medi imprenditori che si svenano per pagare stipendi, tasse e onorare i debiti, ma di soggetti che godono di prestiti molto ingenti in un periodo in cui i rubinetti bancari sono chiusi o aperti con il contagocce? Non è questo verso il vero, enorme problema e il più inaccettabile dei conflitti di interesse del sistema bancario italiano, quello solido a detta di Padoan?

E poi, facciamo due conti su questa benedetta bad bank. Anzi, vediamo i conti di Credit Suisse, la quale la scorsa settimana ha reso noto il suo piano di simulazione, dal titolo quasi poetico di “Pensieri sulla bad bank italiana”. E cosa si legge nel report? Che la nuova proposta del governo Renzi prevede la creazione di tante piccole bad banks, veicoli speciali destinati a gestire le cartolarizzazioni: emissioni di bond con sottostante i crediti in sofferenza. Lo schema di lavoro dovrebbe essere il seguente: junior bond per il 20-30% dell’ammontare totale e senior bond per la rimanente parte, questi ultimi, che sono più sicuri rispetto ai junior, saranno garantiti dallo Stato italiano, con un costo per le banche che dovrebbe attestarsi intorno a 100 punti base. Bene, ma quale sarà il potenziale impatto finanziario della bad bank? «L’agenzia Reuters ha riportato che il prezzo di cessione dei crediti in sofferenza sarà pari a circa il 20-30% del loro valore nominale. Ciò a fronte di livelli di copertura medi del 56,5% per i prestiti in sofferenza del settore: 40-50% per le piccole banche italiane e 60-65% per Intesa Sanpaolo, Unicredit e Mps», sottolineano gli analisti dell’istituto elvetico.

Facendo un esercizio semplicistico e prendendo in considerazione l’intero portafoglio di non performing loans delle banche italiane pari a 200 miliardi di euro e assumendo un taglio medio del 75%, gli analisti di Credit Suisse calcolano ulteriori accantonamenti per 37 miliardi di euro per l’intero settore. Qualche cifra? Bene, vediamo istituto per istituto a quanto ammonterebbero le perdite addizionali in base a questo scenario e al netto delle sofferenze registrate nel terzo trimestre del 2015. Intesa San Paolo patirà perdite addizionali per 4,7 miliardi di euro e un impatto di -37 punti su Cet1 ratio dal 13,3% del terzo trimestre al 13%; Unicredit perdite addizionali per 6,8 miliardi di euro e un impatto di -64 punti su Cet1 ratio dal 10,5% del terzo trimestre al 9,9%; Mps perdite addizionali per 2,8 miliardi di euro e un impatto di -104 punti su Cet1 ratio dall’11,7% del terzo trimestre al 10,6%; Ubi Banca perdite addizionali per 2,5 miliardi di euro e un impatto di -202 punti su Cet1 ratio dal 12,6% del terzo trimestre al 10,5%; Banco Popolare perdite addizionali per 3,6 miliardi di euro e un impatto di -330 punti su Cet1 ratio dal 12,8% del terzo trimestre all’8,9%; Banca Popolare Emilia Romagna perdite addizionali per 1,2 miliardi di euro e un impatto di -74 punti su Cet1 ratio dall’11,2% del terzo trimestre al 10,5%; Banca Popolare di Milano perdite addizionali per 677 milioni di euro e un impatto di -45 punti su Cet1 ratio dal 12,3% del terzo trimestre all’11,8%.

Cosa vuol dire questo? Che certamente se tutto andrà in porto liberare i bilanci da quei non performing loans sarà come rinascere per molti istituti, ma che ci sono due variabili da prendere in considerazione. Primo, come vedete se anche tutto andrà bene, l’Ue non si metterà di mezzo e lo schema sarà quello ipotizzato dallo scenario di Credit Suisse, la bad bank non sarà affatto a costo zero, ma implicherà perdite. Secondo, come faranno fronte gli istituti a quelle perdite e quindi come reagiranno i mercati a quell’impatto? Insomma, se la strada per la bad bank appare irta, non pensiate che una volta ottenuto il via libera il cammino divenga una passeggiata nel parco. E qualcuno comincia a portarsi avanti, visto che con tempismo invidiabile Unicredit lo scorso fine settimana ha cominciato un ciclo di buyback di proprie obbligazioni subordinate presso clienti che le detengono, con molte filiali che da venerdì mattina della scorsa settimana hanno cominciato a chiamare a casa gli obbligazionisti, rendendoli edotti riguardo la possibilità di vendere alla banca – che pagherà cash – le obbligazioni subordinate che detengono.

Non è una novità, l’ultimo buyback obbligazionario Unicredit lo iniziò a febbraio 2015 e lo terminò ad aprile, ma questa volta la finestra è più breve, solo un mese e la campagna di martellamento più in grande stile. Tanto che non si citano a giustificazione dell’operazioni ragioni tecniche come la bassa valutazione di mercato o la poca convenienza come veicolo di finanziamento, bensì, testuali parole di un testimone che ha ricevuto la telefonata dalla banca, «lo fanno per quelli che hanno paura ad avere questi titoli dopo quello che è successo ultimamente». Che cuore grande Ghizzoni, roba da libro di De Amicis trasposto nell’Italia trombata dal bail-in. Chissà, magari è davvero un’operazione di routine. E pensare che normalmente, ovvero in un mondo finanziario non drogato come questo, i buybacks di bond subordinati di solito erano il segnale prodromico a uno switch. Cosa vuole dire? Si ritiravano dal mercato bond subordinati – ovvero debito – in attesa di un cambio valutario e quindi di ri-emissione in una nuova moneta. Che qualcuno sappia qualcosa rispetto allo stato di salute dell’euro?