“Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del Comunismo“. Il noto incipit del Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engels mi è tornato in mente in questi giorni di bufera finanziaria. Naturalmente, oggi non è più lo spettro del Comunismo a spaventare il mondo, ma, ironia della sorte, proprio quel liberismo borghese contro cui il Manifesto si scagliava.
Il tema delle sofferenze (non performing loans, o Npl) che intaccano la qualità del credito bancario è noto da tempo in Italia. A fine novembre scorso, le sofferenze lorde, cioè al lordo delle svalutazioni, ammontavano a 201 miliardi di euro, con un aumento di circa 2 miliardi rispetto al mese precedente, superando il 10% del totale degli impieghi: nel 2007, prima dell’inizio della crisi, il dato era al di sotto del 3%. Al netto delle svalutazioni, considerando cioè gli accantonamenti già effettuati dalle banche a copertura del credito deteriorato, la cifra scende sensibilmente, posizionandosi a 89 miliardi di euro (circa il 5% del totale impieghi). Sono soprattutto famiglie e piccole imprese a essere in seria difficoltà nel restituire i prestiti e quindi nell’ottenere nuovi finanziamenti.
Differentemente dagli altri Paesi europei, dove fin dall’inizio della crisi si sono ricercate soluzioni per ripulire o almeno alleggerire il peso dei crediti deteriorati attraverso finanziamenti o garanzie statali, in Italia il tema della cosiddetta “bad bank” è sempre stato accuratamente evitato, probabilmente perché fonte di reazioni populiste penalizzanti sul piano elettorale. In tale contesto le indiscrezioni circolate in merito alla richiesta di dati sui crediti deteriorati inviata dalla Bce ad alcune banche italiane all’inizio dell’anno ha scatenato il putiferio sui mercati finanziari.
Eppure, già a novembre il Responsabile della Vigilanza della Bce, Danièle Nouy, aveva anticipato la notizia circa la costituzione di una task force volta a studiare il tema dell’accumulo dei crediti problematici nelle banche europee, e non solo in quelle italiane, per individuare anche le best practice di gestione. D’altro canto, è facile arguire come simili indagini rientrino nelle attività ordinarie di un organismo di vigilanza.
Allora perché tanto accanimento sui mercati finanziari contro il settore bancario? Prendiamo il caso del Monte dei Paschi. Tra il 18 e il 20 gennaio il valore del titolo è precipitato ai minimi storici, arrivando a segnare perdite giornaliere superiori al 20% e bruciando letteralmente l’aumento di capitale da 3 miliardi effettuato solamente lo scorso giugno. Eppure, nel mese di novembre, sulla banca senese si è concluso il processo di revisione e valutazione prudenziale condotto dalla Bce che evidenziava un requisito patrimoniale minimo (il famoso “CET 1 ratio”, cioè l’indicatore che segnala lo stato di salute patrimoniale di una banca) del 10,2% nel 2016 e del 10,75% a partire dal 2017. In quella circostanza, Mps comunicava che tale indicatore a fine settembre 2015 era pari al 12%, quindi già superiore alle disposizioni della Banca centrale.
Non solo: a fine dicembre, Mps informava il mercato di aver ceduto un pacchetto di crediti deteriorati del valore di circa 1,7 miliardi di euro, aggiuntivi rispetto alla cessione di 1 miliardo avvenuta nel mese di giugno, documentando comportamenti di gestione del credito problematico in coerenza con il piano industriale e con le richieste della Bce. Quale eclatante novità c’è stata per motivare il tonfo in borsa di questi giorni? La risposta è molto semplice: nessuna.
La riunione tempestiva che ha avuto luogo tra il premier, il Ministro Padoan e il Governatore della Banca d’Italia Visco sul tema della bad bank, con ampie anticipazioni sull’accordo raggiunto con Bruxelles, hanno improvvisamente capovolto la questione, consentendo – unitamente alle parole incoraggianti di Mario Draghi – al titolo Mps di raggiungere picchi di rialzo anche del 40% in chiusura della settimana.
Si tratta di un’operazione studiata a tavolino da parte di speculatori internazionali per far cedere le sofferenze più speditamente, a prezzi più convenienti e rendere più appetibile la banca locale di fronte a eventuali acquirenti? Non saprei rispondere; quel che è certo è che un tema delicato quale quello della bad bank viene affrontato perché imposto da un non meglio identificato “mercato”, così come nel 2011 fu lo stesso potere anonimo a innescare la crisi del debito sovrano che portò alla caduta del governo Berlusconi. Forse è stato anche un bene, ma senza la normale vita democratica e quindi molto pericoloso: “Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e implacabile, le sue leggi e le sue regole“, ci ricorda Papa Francesco (Evangelii Gaudium, 56).
Delle parole del Papa, disponiamo – a mio parere – anche di una “testimonianza finanziaria” proprio all’inizio di quest’anno. Come ha notato Federico Fubini su Il Corriere della Sera, secondo Laurence Fink, amministratore delegato di BlackRock, una delle principali società di investimento al mondo “non c’è ancora abbastanza sangue nelle strade“. E all’inizio dell’anno Nevsky Capital, un hedge fund londinese, ha scritto ai propri clienti invitandoli a riprendersi i soldi. Nella lettera inviata ha precisato che i computer con i loro algoritmi distorcono sempre di più le dinamiche con acquisti e vendite automatici su scala esponenziale: “Sono farfalle che con i loro battiti d’ali creano regolarmente uragani che tagliano fuori chi cerca di investire sulla base dei dati di fondo“. Credo sia la prima volta che un operatore specializzato (e tendenzialmente spregiudicato) teme forse di essere schiacciato dal mostro stesso che ha contribuito a creare.