«È naturale che consumatori e imprese reagiscano in modo diverso ai grandi cambiamenti dell’economia globale, ma il vero dato di fatto è che la domanda interna in Italia sta aumentando e questa è una ragione di grande ottimismo per il nostro Paese» A rimarcarlo è il professor Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison. A gennaio l’indice di fiducia di consumatori e imprese ha fatto emergere un dato contrastante.



Da un lato la fiducia dei consumatori, su base 2010=100, è cresciuto da 117,7 di dicembre a 118,9. L’indice di fiducia delle imprese è invece calato da 105,6 a 101,5.

Perché la fiducia dei consumatori aumenta mentre quella delle imprese diminuisce?

È un fatto che si spiega con la diversa sensibilità dei due soggetti rispetto agli eventi internazionali che hanno caratterizzato questo inizio d’anno. Il calo del prezzo del petrolio per un consumatore significa che paga di meno la benzina e il riscaldamento. Mentre per un’impresa che magari esporta sui mercati internazionali equivale a un rallentamento economico mondiale, e in particolare al fatto che Cina, Russia e Paesi petroliferi hanno meno risorse da spendere. La percezione del problema è opposta: i consumatori vedono un vantaggio, mentre le imprese tendono a porsi interrogativi sulla tenuta della crescita mondiale.



La diversa percezione è influenzata anche dall’andamento delle Borse?

Sì. Le imprese avvertono le cadute delle Borse come un fatto non solo episodico ma che può avverare degli scenari negativi. Quando il Roubini di turno dice che oggi siamo come nel 2008, le imprese assumono un atteggiamento più preoccupato, mentre i consumatori hanno dei tempi di reazione molto più lenti. A gennaio, per esempio, c’è stato un balzo enorme dell’indice di fiducia delle imprese manifatturiere che vendono beni di consumo perché le famiglie stanno tornando a spendere. Mentre nel settore dei beni d’investimento, che guarda al comportamento delle aziende anziché dei consumatori, c’è più pessimismo.



Perché la Commissione Ue è tornata a insistere sul tema del debito?

In Italia come sempre siamo maestri nelle sceneggiate napoletane. A porre il problema non è stata affatto la Commissione Ue, bensì un’agenzia di stampa italiana. Si è preso un documento pubblicato l’1 gennaio scorso sul sito della commissione Affari economici e finanziari, nel quale si utilizzano tre diversi indici.

Che cosa emerge da questo documento?

Dall’indice sul rischio a breve termine del debito pubblico emerge che l’Italia è più sicura della Danimarca. Nel medio termine, cioè dal 2016 al 2026, si sono fatte delle simulazioni e si è stabilito che ci sono 11 Paesi che potrebbero avere un grado di rischiosità sul debito pubblico. Tra questi Paesi, oltre all’Italia, ci sono anche Francia, Spagna e Regno Unito. L’indice di rischiosità della Francia è molto superiore a quello dell’Italia. Leggendo però i giornali francesi non c’è una riga sulla vicenda, perché non c’è nessuna agenzia di stampa che abbia sollevato il caso.

Intanto si è trovato un accordo sulla bad bank. Le nostre banche sono più sicure?

Quello raggiunto è un accordo mirato, nel senso che non si costruiscono fantasiose ipotesi di bad bank di sistema che oggi sarebbero del tutto impraticabili. Sono infatti cambiate le leggi e le norme europee. È passato quindi un accordo che prevede interventi specifici per la cartolarizzazione di crediti deteriorati da parte delle banche, con il presupposto di una garanzia statale molto parca. Si affronta infatti tutta una serie di condizioni sulla qualità dello stesso intervento.

 

Qual è l’importanza dell’accordo raggiunto?

L’importanza dell’accordo sulla bad bank è che in primo luogo si individua uno strumento, e chi vorrà potrà utilizzarlo. Inoltre, il problema dei crediti deteriorati in Italia è totalmente mal posto. I media hanno fornito cifre con una imperizia anche nelle conoscenze degli aspetti contabili che è veramente raccapricciante. È pur vero che ci sono 350 miliardi di crediti deteriorati, ma ce ne sono oltre 400 di coperture reali.

 

(Pietro Vernizzi)