Quanto accaduto in occasione della visita in Italia del presidente iraniano Rohani, ovvero la patetica copertura di alcune statue ai Musei Capitolini di Roma, è paradigmatico dell’Italia in cui viviamo. Si copre la realtà per non imbarazzare, ma, come dice il detto, la toppa è peggio del buco. Ora, partiamo da alcuni punti fermi. Immediato è partito lo scaricabarile sull’accaduto, con il ministro Franceschini che ha reso noto come lui e il premier Renzi fossero all’oscuro della scelta e il sempre ineffabile Codacons che, forse colto da mania fustigatrice del momento, ha chiesto il licenziamento del responsabile della copertura. In mezzo, un Rohani tra l’imbarazzato e il divertito, il quale non ha affatto chiesto certe “premure”, tanto più che a Teheran c’è più di un museo con statue raffiguranti nudi e nessuno per questo ne chiede la rimozione.
Come al solito, come in un triste personaggio di Alberto Sordi, siamo stati più servi di quanto servisse: non a caso, nessuno di questi mezzucci da cavalier servente è stato utilizzato durante la visita di Rohani in Vaticano, rivelatasi quantomai serena e collaborativa. Siamo fatti così, non c’è niente da fare. Detto questo, anche tutte queste polemiche che arrivano a scomodare la nostra identità e civiltà negata fanno ridere i polli: si è trattato solo di un eccesso servile di zelo, non scomodiamo identità che non abbiamo o che neghiamo quotidianamente in modi ben peggiori che inscatolare due statue, per favore. La visita di Rohani ha portato con sé 17 miliardi di dollari di investimenti per le aziende italiane, quindi sia benedetta. In Iran ci sono le esecuzioni capitali? Anche negli Usa, cosa facciamo, rompiamo le relazioni diplomatiche con Washington? La dittatura del piagnisteo civile deve regalare commesse a francesi e inglesi per tenere buone le anime candide dell’indignazione a orologeria? Ma fatemi il piacere, pensiamo piuttosto al fatto che nella delegazione di imprenditori iraniani giunta a Roma per stringere accordi c’erano più donne a capo di aziende di quante non ce ne fossero nelle delegazioni italiane in giro per il mondo, tanto per parlare dell’oscurantismo iraniano. Stiamo parlando di un Paese che nasce dalle ceneri della Persia, signori, un Paese di 77 milioni di abitanti la cui età media è 28 anni e con alto tasso di scolarizzazone e specializzazione: forse, prima di sparare amenità a caso sarebbe istruttivo leggere qualcosa. E non mi riferisco a voi, ma ai fenomeni della polemica politica e mediatica in servizio permanente ed effettivo.
Ora, perché parlavo dei Musei Capitolini come metafora perfetta dell’Italia? Perché negare la realtà è lo sport nazionale di questo governo. L’altro giorno, mentre Rohani incontrava papa Francesco, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan era a Bruxelles per discutere con il commissario alla Concorrenza, Margarethe Vestager, l’annoso nodo della bad bank per le sofferenze delle banche italiane, un capitolo che va avanti da quasi un anno e che l’altra notte, finalmente, sembra aver trovato un epilogo. Quale, però?
Stando ai lanci di agenzia, il travaglio aveva portato alla nascita della banca cattiva in cui stipare le sofferenze che zavorrano i bilanci degli istituti italiani, ma soltanto ieri mattina, attraverso il sito Internet del Mef, abbiamo visto i particolari. Bene, non sto a elencarveli, ma ve li riassumo.
Partiamo da un fatto, quanto ottenuto è come la statua dei Musei Capitolini: una fregatura inscatolata. Cosa abbiamo ottenuto? Un qualcosa di decisamente più complicato di una semplice garanzia statale e la faccia di Pier Carlo Padoan tradiva, fin dall’inizio, il disappunto e la delusione per quanto ottenuto. Non a caso, all’ora di pranzo Ubi Banca e Unicredit erano sospese dalle contrattazioni a Milano per eccesso di ribasso, rispettivamente a -5,6% e -3,7%. Come mai, se la soluzione è dietro l’angolo? Ecco cosa scriveva il ministero dell’Economia: «Lo Stato garantirà soltanto le tranche senior delle cartolarizzazioni, cioè quelle più sicure, che sopportano per ultime le eventuali perdite derivanti da recuperi sui crediti inferiori alle attese». Ovvero, la garanzia sarà riservata solo ai segmenti di maggiore valore e affidabilità dei pacchetti di prestiti deteriorati che le banche cercheranno di cedere agli investitori. Questi ultimi poi potrebbero rilavorarli in modo da metterli sul mercato come titoli strutturati (composti da tanti piccoli crediti), che offriranno un flusso di cassa in base ai pagamenti residui da parte dei debitori o dalla vendita dei beni che questi avevano posto a garanzia dei prestiti stessi. Insomma, una bella cartolarizzazione all’americana ,ma fatta con rigore europeo: si fa una bella salsiccia da piazzare sul mercato, ma non mischiando carni di diverso pregio, bensì solo mixando carni da un certo livello insù. Come dire che con gli scarti ci faranno il ragù le banche che se li terranno a bilancio.
E ancora, la garanzia sarà condizionata al fatto che questi pacchetti di prestiti abbiano un rating di livello accettabile e potrà essere richiesta sia dall’operatore che compra questi pacchetti dalle banche, che dalle banche stesse se intendono rilavorare e mettere sul mercato direttamente i propri crediti in difficoltà. Nel comunicato, inoltre, il ministero dell’Economia spiega che il prezzo della garanzia sarà calcolato sulla base del prezzo delle assicurazioni in derivati, ovvero i credit default swaps, a favore di titoli obbligazionari di livello di rischio comparabile a quello di quei crediti deteriorati.
In sostanza, ci saranno riferimenti di mercato automatici che determinano il valore delle garanzie, peccato che giochi il fattore tempo: più passano gli anni, più il prezzo della garanzia salirà per ogni singolo pacchetto di crediti cartolarizzati e messi sul mercato. Insomma, a cosa avrebbe detto sì l’Europa all’Italia in fatto di non performing loans dopo un anno di trattativa? Potete creare pacchetti di titoli composti da crediti deteriorati ma solo di buona qualità. A quale fine? Questi ultimi potranno essere comprati dalla Banca centrale europea nelle sue operazioni di Quantitative easing, ovvero acquisto di obbligazioni con moneta appena creata.
E dove si annida la fregatura che ha schiantato in Borsa non solo Unicredit e Ubi Banca, ma anche Banco Popolare e Banca Popolare dell’Emilia Romagna? Il volume di titoli di questa qualità elevata rappresenta un’unghia nella montagna di credito malato delle banche italiane, il problema semplicemente non si risolve, se non a favore di chi compra quei crediti, solitamente gente che ama l’azzardo e l’alto rendimento e che invece ora si compra uno strumento ultra-controllato e investment grade. La scoperta dell’acqua calda, in effetti, pare meno banale. E perché, invece, Monte dei Paschi guadagnava? Perché Mps è tecnicamente fallita e questa finestra offerta dall’Europa non farà altro che accelerare l’arrivo del “cavaliere bianco” straniero che se la comprerà per un tozzo di pane e con il favore della Commissione europea.
Siamo alla vigilia della cannibalizzazione del nostro sistema bancario e non possiamo farci proprio nulla. Tanto più se questa logica a qualcuno piace, qualcuno che di nome fa Matteo e di cognome Renzi e che a ogni piè sospinto non perde occasione per ricordare come in Italia ci siano troppe banche e che è giunta l’ora di fusioni e acquisizioni per razionalizzare il comparto, il quale inoltre pesa troppo sul Ftse Mib.
Ed ecco la parte più interessante della vicenda, ovvero quanto potrebbe aspettarci. Negli Stati Uniti le cosiddette “Big Four” (JP Morgan Chase, Bank of America, Wells Fargo e Citigroup), le principali quattro banche del Paese, insieme detengono il 45% di tutti i depositi del Paese, circa 4,6 triliardi di dollari. La quinta banca, US Bancorp, non si avvicina nemmeno, è un po’ come la quinta squadra del campionato spagnolo di calcio che alla fine del girone di andata è già 20 punti dietro chi la precede: pur avendo 3151 filiali e 65mila dipendenti, ha infatti depositi per soli 271 miliardi di dollari.
Ora guardate questo primo grafico, ci mostra come tra il 1990 e il 2010 negli Stati Unti 37 banche siano state inglobate dalle Big Four, siano sparite: il trionfo dell’M&A (merger&acquisition, fusioni e acquisizioni) che tanto viene invocato da Matteo Renzi.
E quando è stata maggiore la frequenza di questo processo di consolidamento del settore bancario Usa? Durante la crisi finanziaria del 2008, quando le Big Four hanno fatto man basse di piccoli competitor che stavano andando a zampe all’aria per i prestiti subprime: Washington Mutual, Bear Stearns, Countrywide Financial, Merrill Lynch e Wachovia furono tutte acquisite in quel periodo. Ora guardate questo grafico, il quale – alla faccia dell’America terra dl liberismo – ci dimostra come le Big Four si siano garantite l’assenza di concorrenza a vita, visto che la creazione di nuove banche è scesa a zero esattamente come i tassi della Fed: tra il 2009 e il 2013 sono nate solo 7 nuove banche negli Usa.
Cos’ha portato a questo fenomeno di “denatalità” bancaria? Semplice e lo dice uno studio della Fed del 2014: l’aumento delle regolamentazioni legato proprio alla crisi finanziaria. E come ci mostra questo ultimo grafico tratto da uno studio della George Mason University, negli ultimi 15 anni il numero di piccole banche negli Usa – le nostre popolari o Bcc – è sceso del 28%, mentre le grandi banche sono aumentate del 33% dal 2000 a oggi.
Ecco a cosa servono le crisi, ad accelerare e rendere accettabile attraverso l’emergezialità processi che vengono spacciati come di consolidamento, ma che non sono altro che oligopoli che uccidono la concorrenza e danneggiano i consumatori. Capito perché la speculazione da una settimana picchia duro sul nostro settore bancario? Ma Renzi e il suo governo coprono la realtà come le statue dei Musei Capitolini. Per quanto ancora sarà possibile, però, non si sa.