Finis Europae? Questa è la domanda che sempre più sentiamo echeggiare e a cui per molti è difficile trovare risposta. La ragione di tale difficoltà sta per i più nell’apparente irreversibilità del processo tecnico-istituzionale innescatosi ormai da alcuni decenni. In primo luogo a partire dall’avvento dell’euro, che ha profondamente trasformato i destini dei popoli europei. Eppure la domanda rimane e si fa angosciosa e la ragione dell’angoscia risiede nel fatto che a porla, quella domanda, non sono stati interlocutori tecnici e che si arrabattano su cifre e medie statistiche. A porre la domanda sono stati i popoli, quelli sofferenti in fuga dal Grande Medio Oriente. I cui confini e le  guerre di  immensi territori e di fragili stati  sono  tanto un frutto dell’Europa dopo la Prima guerra mondiale, quanto la conseguenza della politica post kissingeriana degli Usa. 



Si è così determinata la rottura dei processi di ridefinizione delle difficili statualità ch’erano in corso a causa dell’emergere dello scisma islamico da un lato e dalla risposta errata data a esso da parte degli Usa. Si sono rotti  difficili equilibri di minoranze e maggioranze che reggevano il sistema di potenza dal Golfo sino al Pakistan, passando per una Turchia che non ha ancora scelto il suo destino nonostante un’appartenenza sempre più formale alla Nato. Ed ecco, allora, le ondate di profughi, di anime che fuggono dalle guerre, dalle torture, dalla fame, dalla repressione dagli assassini di massa e che si riversano prima attraverso il Mediterraneo, poi tramite i Balcani, nell’Europa intera. 



Ed ecco la prima sconfitta dell’Europa unita! E questo perché la via di fuga mediterranea non metteva in discussione il dominio che reggeva allora l’Europa. La Germania e gli stati baltici ed ex comunisti ignoravano il problema, forti dello sciagurato trattato di Dublino. Ma quando i Balcani sono divenuti l’altra via di fuga e di penetrazione dei profughi e dei migranti (io non riconosco che vi sia alcuna ragione scientifica per distinguere chi fugge dalla morte per mano militare da chi fugge per inedia e fame), quando i Balcani hanno riversato centinaia di migliaia di povere anime nelle terre  di coloro che di fatto dominano l’Europa, ecco che l’Europa medesima si è divisa. Da un lato la demagogia di una Merkel che apre le frontiere senza pensare agli strumenti per accogliere e proteggere i nuovi venuti e garantire la sicurezza sociale. Dall’altro lato coloro che stendono fili spinati e chiudono frontiere con le armi tra i denti come gli stati mitteleuropei che hanno a proposito di minoranze in fuga una tristissima storia piena di incubi. Ed è la fine anche delle gloriose tradizioni politiche europee. Non so che rimanga oggi del solidarismo cristiano del Ppe, né delle tradizioni socialiste quando i socialisti danesi hanno votato a favore delle misure di requisizione dei beni dei migranti da parte della polizia che uno degli stati del nord Europa più multicultilarizzato ha fatto proprie.



Così eccoci a porre in discussione il principio di libera circolazione delle persone su cui si regge tutta la costruzione europea. Ma si regge senza che ci sia stato mai su questo punto archetipale di tale importanza un confronto pubblico, uno spazio pubblico argomentativo come più volte ci ha ricordato inascoltato Jurgen Habermas. Tale spazio pubblico argomentativo non esiste perché il Parlamento europeo non conta nulla. E quindi oggi ci si trova dinanzi a un’Europa in crisi per ragioni morali prima che monetarie o tecniche, che non ha uno strumento di risoluzione dei problemi fondato sulla volontà dei popoli. E questo perché l’Europa si è costruita senza la diretta volontà dei popoli, ma attraverso un artificio barocco e tecnocratico che ha distrutto la legittimazione delle istituzioni europee appena queste si son dovute confrontare  non con le medie statistiche, ma con i popoli! Popoli in preda alla paura, all’angoscia che a loro volta altra paura e angoscia scatenano e che i fatti di Colonia hanno  rafforzato.

Se è iniziata la fine dell’Europa, essa sarà interminabile e dolorosissima, perché al dolore e alla pena in tutti questi anni l’Europa mai ha rivolto il suo sguardo, accecata dalle maschere dei cloni che proliferano e dominano nelle sue istituzioni. In questa luce i richiami che la Commissione rivolge non solo all’Italia ma anche ad altre nazioni sul problema del debito acquistano un che tra il farsesco e l’ignobile affronto: neppure la tragedia umanitaria riesce a superare l’ipostatizzazione del debito come male peggiore dinanzi a cui l’Europa si troverebbe. Il delirio del pareggio di bilancio sta portando l’Europa allo smembramento perché pone le basi di un negoziato di ritiro concordato dalle regole europee. 

Sarà difficile trasformare Schengen senza dare il via a un processo non di disgregazione anarchica ma di dissoluzione regolata dei trattati. A parer mio è l’unica via per evitare l’anarchia e una stagione di conflitti anche violenti tra inclusi ed esclusi in un approfondirsi dei contrasti interstatuali tra creditori e debitori.

L’Europa tecnocratica sta scivolando verso la fine. Non si tratta di un fenomeno negativo, ma invece da seguire e auspicare.