Il presidente della Repubblica nel suo primo discorso di fine anno ha indicato nel lavoro la priorità per l’Italia del 2016. Tutti lo hanno riconosciuto e apprezzato, anche se pochi, ancora, ne hanno tratto le conseguenze politiche ed economiche. L’Italia ha cominciato una lenta e precaria ripresa, creando poco lavoro; non basta per soddisfare la domanda delle nuove generazioni, come ha detto il capo dello Stato, ma nemmeno a riassorbire i posti di lavoro distrutti da sette anni di recessione. È la stessa critica venuta dalla Banca centrale europea. Può darsi che Mattarella e Mario Draghi si siano fatti gli auguri con una telefonata, tuttavia il presidente della Repubblica e i suoi consiglieri sono abbastanza attenti per capire il messaggio che viene da Francoforte: noi stiamo facendo molto, ma non possiamo fare tutto da soli. Insomma, aiutati che la Bce ti aiuta.
Senza una sostenuta creazione di nuova occupazione la ripresa va derubricata a un rimbalzo quasi fisiologico dopo una così lunga depressione produttiva, effetto tecnico di una ricostituzione delle scorte. Dunque non è destinata a durare. Se è così, l’Italia con i suoi duemila miliardi e rotti di debito da piazzare sul mercato, che non si riduce in rapporto al prodotto lordo, vista la sostanziale stagnazione economica, può diventare uno dei colpi di coda che molti temono per il 2016. Non c’è bisogno di esercitare doti divinatorie, tanto meno di magia nera, per capirlo.
Il problema è ancor più complicato perché mette in discussione la principale riforma finora realizzata dal governo: il Jobs Act. È vero, i suoi effetti si vedranno meglio nei prossimi mesi, ma ormai ne sono trascorsi nove e in sostanza abbiamo visto un aumento dei posti di lavoro stabili accompagnata da una riduzione di quelli precari, fenomeno positivo in termini di sicurezza e di reddito, ma non si tratta di un vero allargamento del mercato. L’indice più importante non è tanto il tasso di disoccupazione, ma la quota di persone, donne, uomini, giovani, in età lavorativa, impiegate in un modo o nell’altro. Questa percentuale è storicamente bassa in Italia, la crisi l’ha ridotta e non si vede nessuna svolta verso l’alto.
Dunque il Jobs Act ha fallito? Allora la flessibilità del mercato, l’abolizione dell’articolo 18, la maggiore libertà di assumere e licenziare, la revisione di tutti i fattori che bloccavano in mercato dal lato dell’offerta, non è servita? Aveva ragione la sinistra sindacale, bisogna dare a Landini un riconoscimento accademico non solo politico? È un punto di grande portata politica. Se è così, il percorso riformista di Matteo Renzi s’interrompe nella tappa di maggiore importanza, anche sul piano internazionale.
Chi crede nelle politiche dell’offerta come solo strumento per sbloccare l’Italia, spezzando i lacci e laccioli che la paralizzano, sostiene che le cose non stanno così. Naturalmente, occorre fare un tagliando anche al Jobs Act, occorre valutare che cosa sta funzionando anche cosa no. Ma anche i supply-siders più incalliti a questo punto debbono convincersi che ci vuole anche un sostegno della domanda interna.
Su questo il governo Renzi non ha fatto abbastanza. Ha aumentato la spesa in deficit, ma in ogni caso la coperta è troppo corta. Il ministro Delrio sostiene che il rilancio delle infrastrutture farà da volano, però le opere pubbliche in Italia hanno smesso di essere un traino dello sviluppo almeno dagli anni Novanta, anzi si sono rivelate una fonte di pasticci, di guai, di inefficienze. Dunque, lo scetticismo è d’obbligo. Si possono aumentare le ricorse magari intensificando la lotta all’evasione fiscale. Però il dubbio riguarda proprio la capacità della spesa pubblica italiana di generare oggi crescita e lavoro.
E allora? Sembra chiaro che la via maestra resta quella fiscale. Gli 80 euro sembravano un inizio, sia pur modesto, nel senso giusto. Invece, non si è andati avanti nella stessa direzione, riducendo il peso fiscale e contributivo che grava sul lavoro, causa diretta della scarsa creazione di nuovi occupati. Lo sconto sui nuovi assunti all’inizio ha funzionato, però si spegne a mano a mano che il vantaggio si riduce e si avvicina la sua scadenza. È arrivata la riduzione dell’imposta sulla prima casa, misura molto popolare a giudicare da quanto era impopolare la tassa, ma l’effetto lo vedremo a fine 2016. Intanto tra novembre e dicembre s’è abbattuta una gragnuola di tasse. E il nuovo anno si apre con una pioggia di aumenti tariffari, dalla scala mobile per le autostrade al rincaro dei biglietti sul Roma-Milano, entrambi discutibili se non proprio ingiustificati. Tutto ciò non favorisce certo un miglioramento delle aspettative dei contribuenti.
C’è poi la grande incognita degli investimenti privati. In Italia continuano a ristagnare e questa è la causa prima della scarsa crescita. Incertezza, paura del futuro accresciuta dalla minaccia del terrorismo islamico, molti sono i fattori che bloccano gli investitori. A cominciare dalla paralisi bancaria: la moneta stampata dalla Bce è finita solo in piccola parte nel circuito creditizio perché le banche italiane sono malate, le piccole colpite dalla crisi e da una gestione clientelare, le grandi ancora fragili dal lato del capitale.
Su fisco, investimenti e credito il governo si è mosso per tamponare le emergenze (vedi il salvataggio delle quattro banche del centro Italia), ma senza una vera strategia. A questo punto, potrebbe chiamare i principali soggetti economici a palazzo Chigi per un tavolo della ripresa economica, mettendo industriali, banchieri, sindacati, commercianti davanti a un progetto di rilancio dell’Italia. È un gesto, non ha alcun potere salvifico, non è che adesso vogliamo riesumare la pianificazione che giace nella sua tomba. Ma i gesti contano per influenzare la psicologia di massa.
Un colpo d’ala a questo punto diventa necessario. Renzi ha esaurito la spinta propulsiva, adesso ha bisogno di ripartire e ripartire bene.